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Bari e la sicurezza, il criminologo: “Non basta riconsegnare i parchi, bisogna riempirli di contenuti”

Pubblicato da: Rosanna Volpe | Lun, 11 Luglio 2022 - 06:30

Dalle aggressione delle baby gang al susseguirsi dei furti a danno delle attività commerciali. A Bari si torna a parlare di sicurezza, tema da sempre diviso dai numeri forniti dalle forze di polizia, alla percezione che i cittadini ne hanno. Ne abbiamo parlato con il  criminologo, Domenico Mortellaro.

Torna ciclicamente il tema della sicurezza. Secondo lei se ne parla adeguatamente? 

Il tema della sicurezza torna ciclicamente per il semplice fatto di non essere trattato, manutenuto e aggiornato correttamente. Un luogo è sicuro o non lo è, punto. E se si torna a parlare di sicurezza dei luoghi e dei contesti è semplicemente perché l’attenzione al tema non è adeguata o non viene mantenuta adeguata nel tempo. Perché alle visioni e agli intenti non seguono i corretti fatti, perché le emergenze non si testano ogni semestre sul campo, perché le minacce cambiano e ci si scopre puntualmente inadeguati.

A Bari viviamo questo, probabilmente da quarant’anni, e cioè da quando una delinquenza cittadina prepotente, ma disorganizzata ha fatto il salto di qualità. Le nuove minacce hanno preso piede dopo, con l’affermarsi di un carattere metropolitano che non si sposa con un umore sociale da semplice grande città. Non siamo in grado di conoscere e quindi di contrastare correttamente le emergenze collegate al crimine organizzato che a Bari ha un nome chiaro, una ragione sociale conosciuta, una storia indagata e livelli di preformance e organizzazione così efficienti da essere ormai studiate ed emulate anche dalle altre mafie più blasonate.

Un esempio su tutti? Quante ordinanze ci sono a vietare il detestabile fenomeno delle salve di fuochi d’artificio? Quante “batterie” salutano settimanalmente lieti eventi o ordini dei padrini? Ancora e più in profondità, lo spaccio – tanto minuto quanto articolato – inquina uno dei settori trainanti della economia cittadina. Quanto conosciamo del fenomeno? Che misure mettiamo in campo per contenerlo non solo in termini repressivi ma anche e soprattutto in termini preventivi? E ancora, quanto lavoriamo concretamente sul fenomeno della violenza giovanile che potrebbe e dovrebbe trovare risposte “di sicurezza” anche e soprattutto nel potenziamento degli sforzi in materia di formazione e promozione di una cultura associativa che contenga la dispersione dei sentimenti e il proliferare delle culture devianti? Fermiamoci qui, ma ci sarebbe tanto altro da dire, anche in termine di progettazione della città, ripensamento dei luoghi sociali, promozione e diffusione concreta di formazione, cultura, educazione attraverso il modo in cui si plasma la città e si articola l’offerta di servizi e diritti ai cittadini.

I numeri che sono emersi nel corso della riunione del comitato di ordine e sicurezza in Prefettura non raccontano di una città effettivamente in emergenza, ma la sicurezza percepita dai cittadini è bassa. Perché secondo lei? Ai cittadini basta davvero vedere i posti di blocco dei militari per sentirsi al sicuro?

Innanzitutto mettiamoci d’accordo anche sul termometro e sulla scala che usiamo per leggerlo. Il termometro della sicurezza reale differisce per mille ragioni soggettive e di coscienza collettiva da quello della sicurezza percepita. E spesso, semplicemente, occorrerebbe fare una media. Non credo ci si debba appassionare in modo integralista ad una o all’altra lettura. E saper scegliere gli indicatori giusti e non quelli di comodo. La politica non sa farlo.

In occasioni come queste, la politica usa i dati, noi tecnici e le nostre professionalità a proprio uso e consumo, soffiando sul fuoco della paura di una percezione di sicurezza troppo bassa, oppure pretendendo di rassicurare solo ed esclusivamente attraverso i dati del denunciato – che per mille ragioni a Bari non corrispondono che ad una paurosa sottostima del fenomeno. Quanti non denunciano una aggressione omofoba per la consapevolezza dei mille problemi che deriverebbero, dopo, dall’aver magari dovuto agire un coming out obbligato? Quanti ragazzini vittime di pestaggi e aggressioni ai margini delle storie di spaccio serali non denunciano per paura delle conseguenze in famiglia di una loro parziale ammissione di responsabilità? Quanti sono costretti a voltarsi dall’altra parte, di fronte a una salva di fuochi d’artificio, perché in alcuni quartieri – ancora fortemente esclusi dal punto di vista sociale – la voce del ras di zona è decisamente più autorevole di quella del Sindaco?

Lo ripeto, scegliamo indicatori più adeguati se pretendiamo, com’è giusto che sia, di essere autorità credibili agli occhi dei cittadini. Militari per strada? Storicamente funzionano poco: sono un deterrente immediato, ma a lungo termine, le ceneri profonde – che si chiamano esclusione sociale e culturale, carenza di progettualità socio-culturali a lungo termine, assenza di spazi e luoghi orientati ad essere “Bene” e non solo “un bene” restituito alla cittadinanza – tornano a pendere fuoco. Semplicemente lo fanno altrove, oppure in altri contesti. Com’è necessario fare uno sforzo di complessità nella scelta dei termometri, delle scale e delle misurazioni, è anche obbligatorio – e non più rimandabile – mettere in piedi una progettualità – e non solo una narrazione social o propagandistica – complessa per risolvere il fenomeno.

Da dove occorre ripartire?

Innanzitutto occorre abbandonare la politica della narrazione rassicurante ed auto-assolutoria, in tema di sicurezza. Occorre accettare di aver polvere in casa piuttosto che affrettarsi a buttarla sotto il tappeto. Occorre, con enorme umiltà, ammettere, prima di tutto a se stessi, che a problemi complessi e multidisciplinari servono soluzioni complesse e articolate, che importano il coinvolgimento di analisti, studiosi, professionisti. E poi occorre capire che alla visione – spesso schiava della narrazione e delle ragioni di propaganda –  serve un robusto apparato strutturale affinché si trasformi in realtà.

Non basta riconsegnare parchi, bisogna riempirli di contenuti sociali. Il “bene” inteso come narrazione, come valore e non come mero dato urbanistico, si libera se il contesto in cui quel bene è chiamato a svolgere la propria funzione, è un contesto che cresce assieme alle promesse. Se Carrassi è un quartiere abbandonato, più che essere salvato dal Parco Rossani, finirà per inquinarlo – a dire il vero sta già succedendo, è il detonatore che ha innescato la riflessione. Se i clan hanno inquinato la gioventù coinvolgendola direttamente nell’ultimo passaggio dello spaccio, è necessario un piano Marshall di formazione che agisca sulla domanda di droga abbattendola con un enorme sforzo culturale  ed è indispensabile uno sforzo parimenti enorme che agisca sulla formazione alla legalità.

La repressione tampona, ma non risolve. Se gli spazi sono – come è ormai chiaro – strumenti a servizio di una cittadinanza e di una visione, li si pensi, realizzi, consegni e manutenga con la giusta attenzione. E al fondo di tutto, davvero, si pensi a ricucire questa città ancora lacerata socialmente ed economicamente, perché larga parte, davvero larga parte del problema, sta tutta in questa tela cittadina che ci restituisce – da più di mezzo secolo – una narrazione strappata in due.

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