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Il risarcimento danni da attività pericolosa

Pubblicato da: avv. Valentina Porzia | Mer, 13 Settembre 2017 - 10:45

Nel panorama sportivo, possono ravvisarsi attività pericolose, per natura e mezzi impiegati, in altre parole sport caratterizzati da elevata velocità, altezza, prestanza fisica, frequenza di ambienti aspri ed incontrollabili e necessità di attrezzature altamente specializzate. Il concetto di pericolosità è strettamente collegato all’esigenza di adottare particolari misure di prevenzione che differiscono dagli standard del quotidiano e viene valutato tenendo conto dei criteri di diligenza e di attenzione propri necessari per quella specifica attività, al fine di evitare eventuali sinistri. Ne consegue che determinate attività possano essere considerate pericolose anche se, visti i sistemi di prevenzioni sofisticati di cui si avvalgono, non hanno mai causato danni a terzi.

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Parlando di attività sportive pericolose, è doveroso il richiamo all’art. 2050 del codice civile, titolato “la responsabilità per l’esercizio delle attività pericolose”. La norma, infatti, prevede che «chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno». Le  attività  pericolose di cui al suddetto articolo sono quelle tipizzate nel codice o in leggi speciali e quelle “atipiche”, ovvero considerate tali per la loro attitudine a produrre un rischio.  Un esempio è dato dall’attività di caccia,  ove, a norma di quanto previsto dalla legge n. 157/1992 è obbligatoria l’assicurazione per responsabilità civile.  Sono ritenute, altresì, pericolose: la pratica del taekwondo, sia in allenamento che durante una gara, la boxe, l’equitazione, il kitesurfing, e l’organizzazione di gare motociclistiche e automobilistiche.  Tra gli sport non agonistici la giurisprudenza ha ritenuto pericoloso: l’alpinismo, dove molto spesso l’insidia nasce dall’inesperienza. Attività pericolosa per eccellenza, anzi, altamente pericolosa, è l’organizzazione e gestione di siti e di mezzi per l’esercizio dei c.d. sport estremi, tra cui il bungeejumping, il freeclimbing, lo skysurfing, il rafting, ecc. Ora, fatto un quadro indicativo degli sport che la giurisprudenza considera pericolosi e partendo dal presupposto che tutte le attività umane contengono in sé un grado più o meno elevato di compromettere la sicurezza, per delimitare i confini della applicabilità dell’art. 2050, c.c., è doveroso prendere in considerazione solo quelle potenzialmente dannose in ragione della pericolosità ad esse connaturata ed insita nel loro esercizio, a prescindere dal fatto dell’uomo. Succede, tuttavia, che chi svolge l’attività deve farlo con una maggior cautela rispetto ad una attività non rischiosa. Ne consegue che il soggetto che gestisce gli impianti ove gli sport vengono svolti, o l’organizzatore delle competizioni e delle attività sportive possa essere ritenuto responsabile per esercizio di attività pericolosa, qualora lo stesso non abbia posto in essere le dovute precauzioni e misure utili ad evitare che il sinistro potesse verificarsi. (Il caso del gestore delle piste di go kart che manca nella messa in sicurezza dei luoghi, posizionando le dovute protezioni ai lati della pista) Le fattispecie sono sempre soggette all’apprezzamento del giudice, circa la natura dell’attività. Non si deve dimenticare, infatti, che la partecipazione ad un’attività sportiva comporta per gli atleti l’accettazione del rischio di incidenti prevedibili, in quanto derivanti da inevitabili errori degli atleti. Ordunque, colui che invoca l’applicazione di questo particolare regime di responsabilità deve provare il nesso causale tra l’esercizio dell’attività pericolosa e il danno. Per contro, il soggetto che subisce l’azione potrà vincere la presunzione di responsabilità solo fornendo la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Al contrario, ai fini dell’esclusione della responsabilità, non può valere che il danneggiato non abbia assunto autonome iniziative che potessero sopperire alle omissioni imputabili al gestore dell’attività medesima. L’art. 2050 c. c., infatti, non pone obblighi di diligenza a carico dei terzi estranei alla gestione dell’impresa pericolosa e non esclude il caso in cui l’insidia sia occulta e non avvertibile secondo un metro di ordinaria diligenza.

Un corretta valutazione dei fatti sarà utile per evitare eventuali attivazioni di procedimenti che possano avere risoluzioni positive in favore dell’attore.

Per informazioni e approfondimenti è possibile contattare l’avvocato al seguente indirizzo avvocato@valentinaporzia.com.

 

 

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