Nel 2006 la Germania regalò al mondo un film estremamente sensibile, “Le vite degli altri”. Qui una spia della Stasi era investita del compito di spiare, attraverso delle intercettazioni ambientali, i movimenti di un intellettuale residente nella Germania Est. Il protagonista, che agisce per quasi tutta la durata nel film nell’ombra come spettatore passivo de le vite degli altri, in un determinato momento rompe la distanza che lo separa dalla persona intercettata ed entra nella sua vita, scombinando ogni ruolo e ogni regola. Ecco, questo è quanto succede anche in Gyspsy, una delle nuove proposte di casa Netflix.
Al centro della vicenda, la psicologa Jean (interpretata da Naomi Watts) e le vite dei suoi pazienti. Tra una signora con ingerenze estreme nella vita della figlia e un’adolescente tossicodipendente, lo studio di Jean diventa, giorno dopo giorno, un teatro della disperazione umana, quella dell’Occidente annoiato e depresso, in cui ad ogni disturbo si associa un farmaco e si cade spesso vittima delle aspettative sociali. Tra le vite oltre le quali Jean decide di avventurarsi, rompendo quel famoso muro, c’è anche quella di Sam Duffy (Karl Glusman), ossessionato dall’ombra di una relazione ormai conclusa e dal ricordo indelebile della sua ex fidanzata, Sidney (Sophie Cookson).
Spinta dall’istinto, Jean costruisce una seconda identità, quella di Diane, giornalista, e conosce la famosa Sidney, testando sulla propria pelle l’indiscutibile fascino della ragazza e intrecciando con lei un intenso flirt, un gioco di inseguimenti e bugie in cui le due donne si specchiano e si riconoscono.
Parallelamente, Jean la psicologa si dibatte nella sua vita quotidiana, dove è madre e moglie (quasi) modello, comprensiva e complice dei suoi cari. Con una figlia che, anche lei, rispecchia la sopita bisessualità della protagonista e un marito che a sua volta combatte contro una naturale voglia d’evasione e di novità, Jean sparge frammenti di sé in tutti quelli che le stanno attorno. In questo regime di complessità emotiva, tutto sembra vivere meglio nel segreto e negli spazi ritagliati nella propria intimità. Autentica come Jean, autentica come Diane, il personaggio riesce a raccontare con verosimiglianza l’esplosione della donna contemporanea, che decide di non scegliere tra lavoro, famiglia e la ricerca mai conclusa della propria identità sessuale.
Dai risvolti un po’ creepy, Gypsy è una serie ben scritta e diretta, che riesce a toccare tematiche dure come la dipendenza emotiva (e non solo), con una schiettezza libera da retorica. Ben svolta la performance di Naomi Watts, l’ultima di una lunga serie di attrici e attori di cinema prestati al piccolo schermo. Non più giovanissima, ma sempre più definita nella sua matura fragilità, l’attrice australiana riesce a rendere in maniera molto convincente l’ex bad girl prestata alla vita borghese, che torna a farsi spazio nel mondo. Non solo modello positivo, come è giusto che sia in un racconto autentico e sfaccettato, la psicologa di Watts è anch’ella dipendente da varie situazioni, che siano chimiche o personali. Una storia che ci ricorda, così come nel film citato all’inizio, quanto sia difficile per chi osserva la vita del prossimo, restare in disparte in una posizione di mero ascolto. La curiosità e la contagiosità dell’essere umano finisce per diffondersi in maniera incontrollata nelle esistenze degli auditori, che diventano immediatamente da spettatori, protagonisti.