Bridgend, il progetto musicale di Andrea Zacchia, esordisce con Rebis: un concept album che commistiona post-rock e progressive-rock, recitazione e psichedelia. Le dodici tracce di cui si compone il disco risentono fortemente dell’influenza del progressive rock degli anni ’70 e ’80, al punto da poter pure contare su parti recitate dagli attori teatrali Roberto Bonfantini, Lodovico Zago e Gioele Barone. Il primo singolo estratto dal disco, Zain, offre già tutti gli elementi presenti nel lavoro. L’artwork, anch’esso perfettamente in linea con l’identità del progetto, è stato prodotto da Gabriele Ciufo.
A Bridgend collaborano Lorenzo Sirani Fornasini (basso) e Denis Kokomani (batterie). Le parti di basso e batteria di Rebis sono state incise rispettivamente da Gabriele Petrillo e Daniele Naticchioni, due giovani musicisti della scena romana.
E proprio Andrea Zacchia (chitarra e synth) ha risposto ad alcune domande.
Da dove nasce il nome Bridgend?
Il nome Bridgend è quello della città in Galles dove ho scritto e composto Rebis. In italiano potremmo tradurlo in “la fine del ponte“, un nome piuttosto indicato per un progetto prog!
Come si è avuto l’incontro tra post-rock e progressive rock, nei Bridgend?
Questo incontro è stato molto spontaneo, sono i due generi che prediligo in assoluto. Il progressive per le sue strutture, per le modulazioni, per i leitmotiv, per le atmosfere; il post rock per i suoi suoni, per la sua ossessiva ripetitività, per la sua malinconica intimità.
Come è stato modellato il suono dei Bridgend?
Per le batterie l’ispirazione principale viene dal rock psichedelico, con Andrea Saponara, l’ingegnere del suono del Polistudio Recording, abbiamo optato per una microfonazione standard arricchita da diversi microfoni ambientali, per dare ampio respiro al disco. Il sound dei synth è diviso in due categorie, i pad di impostazione moderna e i lead dal sapore decisamente vintage, realizzati rispettivamente con Absynth e una Nord Lead. I bassi sono stati realizzati con un Music Man Sting Ray, con un fretless Ibanez e con una testata Mark Bass. Tra gli effetti che hanno caratterizzato il suono del basso ci sono il Phase90 della Mxr, il Phat-Hed Distortion della Ibanez e il CE 2 della Boss. Le chitarre sono state realizzate con una Suhr Modern, testata Triaxis e finale 20/20 della Mesa Boogie, cassa Marshall e tutte le modulazioni sono del Gmajor 2. C’è una piccola curiosità che riguarda la ripresa di alcune linee di chitarra, in cui abbiamo utilizzato un pianoforte a coda come cassa risonante e il risultato è davvero unico e particolare! Il sound generale che ne risulta è decisamente caldo e compatto, grazie anche all’utilizzo prevalente di macchine analogiche, tra le quali compressori Valley People per le batterie, Aural exciter della Aphex e compressori Dbx vintage per le chitarre, il tutto missato con il banco analogico DDA DMR-12 a 56 canali.
Da cosa nasce la commistione tra teatro e musica di Rebis?
È stata una scelta ispirata dal prog di fine anni ’70, dove spesso le canzoni erano più recitate che cantate. Volevo che la storia di Rebis venisse identificata attraverso i suoi dialoghi e l’utilizzo di tre attori teatrali si è rivelata una scelta particolarmente efficace ed incisiva per questo scopo. Una commistione che spero di ripetere in futuro.
Perché avete voluto trattare del tema del ciclo delle reincarnazioni?
Ho sempre trovato affascinante questo tema, volevo realizzare un disco che fosse una sorta di Ouroboros, un inno alla natura ciclica delle cose che, come la storia di Rebis: ricominciano dall’inizio dopo aver raggiunto la propria fine.