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La mafia delle slot machine: i clan impongono le macchinette, 200 euro per l’affitto obbligatorio

Pubblicato da: Vincenzo Damiani | Mer, 22 Marzo 2023 - 11:55
Sequestro

Per avere un’idea, seppure parziale, di quale sia il giro d’affari per le organizzazione criminali che puntano al business delle slot machine, basti pensare che solamente nel 2015 le forze dell’ordine, in provincia di Bari, hanno sequestrato quasi cento milioni di euro ai “re” delle macchinette magia-soldi. Secondo la Dna, quello delle slot è un mercato in espansione che frutta ai clan soldi facili, anche più della droga.

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Slot machine imposte ai commercianti: 200 euro per il noleggio obbligatorio

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Due sono le fonti di guadagno, anche se in entrambi i casi parliamo di forme di estorsione. Funziona così: le cosche, attraverso un prestanome, costituiscono delle società che producono o noleggiano le macchinette. Le slot machine, poi, vengono imposte ai commercianti: dai bar alle tabaccherie, sino alle sale da gioco. Per ogni macchinetta presente nel locale il negoziante deve pagare non solo il noleggio (dai 100 ai 200 euro al mese), ma anche una percentuale fissa sulle giocate che oscilla dal 10 al 30 per cento ma può essere anche più alta. Per intenderci, se in un mese vengono raccolti mille euro, il commerciante dovrà versare al clan un minimo di 100 euro per l’affitto imposto più un altro minimo di 100 euro. Somma che ovviamente va moltiplicata per ogni macchinetta mangia-soldi, facile immaginare quali possano essere i guadagni illeciti.

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A Bari record di macchinette installate

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Ma per avere un quadro ancora più chiaro ecco altri numeri: il 5,75% delle macchinette italiane si trova in Puglia, quasi 7mila esercizi pubblici hanno i cosiddetti “apparecchi di intrattenimento. Secondo l’Agenzia delle dogane, nel 2012 il 3,15% del reddito pro capite pugliese è finito nelle slot machine, una media di 431,5 euro per abitante. Quasi un terzo di uno stipendio, in media. Quanto a numero di esercizi sul territorio, la provincia di Lecce ne conta 1.604, segue la provincia di Bari con 1.549 sale, quella di Taranto a quota 1.036, Foggia con 934 esercizi, i 900 locali di Brindisi e, in coda, i 524 locali della Bat. Le posizioni però cambiano se si tiene conto solo delle città capoluogo: Bari balza in testa con 343 esercizi.

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Un business da capogiro: 23 miliardi all’anno per le cosche italiane

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Insomma, il volume d’affare è da capogiro e la mafia lo ha capito. Attraverso il racket delle slot machine, la criminalità organizzata è riuscita a proporsi, in una veste diversa, nel tessuto economico del capoluogo pugliese. Le società costituite per la commercializzazione delle macchinette, scatole vuote con a capo le cosiddette “teste di legno” (incensurati che fanno da prestanome, spesso) diventano, all’occorrenza,  anche funzionali per riciclare il danaro sporco. L’Eurispes, monitorando l’attività delle forze di polizia, ha calcolato che, grazie ai videopoker, la mafia in Italia produce un volume d’introiti parallelo a quello legale intorno ai 23 miliardi di euro l’anno, poco più del 13% dell’intero fatturato dell’economia criminale.

rnI clan che gestiscono il mercato illegale a Bari e provinciarnrnSecondo la Dna, i clan baresi che hanno messo le mani su questo enorme giro di soldi facili sono soprattutto quattro: la cosca dei Parisi, gli Strisciuglio, i Di Cosola e i gruppi criminali di Altamura. Ma recenti indagini hanno evidenziato forti legami e collaborazione con altri clan pugliesi, in particolare con la mafia foggiana.rn

Il precedente: l’attentato ad Altamura e la morte dell’Innocente Martimucci

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Uno degli ultimi attentati mafiosi che si è consumato tragicamente in provincia di Bari, ad Altamura, fu progettato, secondo i carabinieri, proprio per una guerra tra gruppi malavitosi che si contendono il mercato delle slot machine. A rimetterci la vita un innocente, il giovane Domenico Martimucci morto per via delle ferite riportate dall’esplosione di un ordigno piazzato davanti alla sala giochi Green Table. Altri sette ragazzi furono travolti dalla deflagrazione, secondo gli inquirenti Mario D’Ambrosio, fratello del defunto boss Bartolo, pianificò l’atto intimidatorio perché in quella sala giochi non c’era slot machine “sue” e il locale gestito da lui aveva perso clientela per colpa della concorrenza.

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