Sausage party non è un film per bambini. Se già dal trailer potevamo immaginare la natura ammiccante del prodotto, la visione elimina ogni dubbio e lo consegna definitivamente al pubblico adulto. Dalla scelta dei protagonisti – una salsiccia/uomo chiamata Frank e un panino/donna chiamata Brenda – a quella dell’antagonista – una lavanda vaginale, Douche (che in inglese sta per “deficiente”) – al linguaggio usato, fino alla violenza di alcune scene, ogni elemento tradisce un tipo di scrittura demenziale tipica della firma di Seth Rogen, già autore di cult del genere come Ali G Show e The Interview.
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Citazioni e allegorie
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Come spesso accade in questo tipo di commedie, gli autori si sono divertiti a inserire numerosissime citazioni che vanno a scomodare scene e personaggi cult dell’arte, del cinema e della musica e – in generale – di tutto l’immaginario pop: Frank e Brenda, da cui spuntano mani guantate di memoria disneyana, si sfiorano come Dio e Adamo degli affreschi della cappella sistina di Michelangelo, la caduta dal carrello dei prodotti ha la regia dello sbarco in Normandia de Salvate il soldato Ryan e il Sergente Peperone (Sgt Pepper in originale) indossa la stessa divisa dei quattro Beatles. Ma, oltre alle singole citazioni, quello che sorprende è come tutto il film sia un’allegoria del mondo, della storia e della società. La costruzione dell’al di là, al quale ogni mattina i prodotti del supermercato dedicano inni, è la base di una religione illusoria che neutralizza le difese dei suoi fedeli e li consegna, inermi e gioiosi, ai propri carnefici. Tra gli scaffali, inoltre, nascono rivalità e divisioni basate su differenti interpretazioni della stessa menzogna: esemplari da questo punto di vista i due personaggi del lavash halal di nome Kareem (una di quelle piadine che si usano per fare i kebab, per intenderci) e del bagel kosher Sammy che sono costretti, insieme ai loro simili, a dividere il piccolo reparto di cibo mediorientale con il risultato che, dal 1948 ad oggi, conosciamo tutti.
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rnAprire le porte della percezione
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Il mondo delle divinità – che poi è il nostro, quello degli esseri umani – e il mondo dei fedeli, dei prodotti del supermercato, sono separati da un muro di incomunicabilità e di incoscienza. L’unica soluzione prevista dal film è l’allucinazione di una droga sintetica non meglio identificata – che si assume, tuttavia, come eroina – che permette agli umani di acquisire coscienza della propria crudeltà. L’alterazione volontaria dei propri limiti percettivi, pare essere la strada scelta dagli autori per giustificare una scelta narrativa che oltrepassa i limiti della commedia per diventare rappresentazione alternativa della realtà. In sostanza, per osservare l’assurdità del mondo che nei secoli abbiamo costruito intorno a noi, che ci ha condizionati, che ha dato vita a guerre, differenze e crudeltà, dobbiamo trasporre la nostra Storia in un microcosmo artificiale e osservare quello che succede. La carneficina tra salsicce e perette diventa, così, sempre più profonda e la strada mostrata dai protagonisti illustra la morte di Dio (o degli dei, in questo caso), per mano dei suoi stessi fedeli come tappa inevitabile nel processo di liberazione e sopravvivenza dell’intero genere umano (o alimentare).
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Non si capisce, alla fine del film, se abbiamo visto qualcosa di estremamente stupido o di assolutamente geniale, ma, suppongo, sia giusto che ognuno dia la propria risposta. Attenzione, però, a non fraintendere l’uso dell’animazione 3D normalmente associata ai film per l’infanzia: è solo il mezzo più congeniale per mettere in piedi il food porn visionario degli autori.