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Schiavitù e caporalato del nuovo millenio, le altre facce del capitalismo in “Morire come schiavi”

Pubblicato da: Francesca Romana Torre | Mar, 21 Giugno 2016 - 14:03
Morire come schiavi, Enrica Simonetti ed. Imprimatur

La vita, il lavoro e la morte di Paola Clemente, ma anche di Ioan Puscasu e Abdoullah Mohammed: “Morire come schiavi” di Enrica Simonetti racconta lo sfruttamento nelle campagne pugliesi, le sue vittime e la lotta contro il caporalato. Giornalista de “La Gazzetta del Mezzogiorno” e scrittrice, cura le pagine di cultura del quotidiano.

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Perché ha scelto di passare dalla cultura alla cronaca?

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Spesso quando parliamo di cultura ci occupiamo di tante cose, senza arrivare al nodo della quotidianità, invece dovremmo partire dalla cronaca per sviluppare il pensiero intellettuale. Quando è morta Paola Clemente, l’estate scorsa, io avevo appena finito di rileggere il “Fontamara” di Ignazio Silone e mi sono trovata a pensare come i contadini di quasi un secolo fa parlavano delle stesse cose di cui si parla oggi. Ho immaginato, allora, una sorta di fiction: da giornalista mi ritrovavo per puro caso a scrivere di Paola Clemente e decidevo di portare avanti questa inchiesta in un viaggio che io chiamo in the fields, perché attraverso le campagne. Un giorno, mentre percorrevo la strada che porta a Terlizzi, mi sono imbattuta in una ex fabbrica che si trovava in condizioni vergognose: in quell’edificio pietoso vivevano centinaia di immigrati, senza luce e acqua. Non possiamo tacere qualunque sia l’ambito di cui ci occupiamo e, anzi – come ha detto il mio direttore – il candore di chi ha uno sguardo non assuefatto, riesce a raccontare le cose in maniera nuova.

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Cosa l’ha colpita di più della storia di Paola Clemente?

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Paola Clemente era una donna italiana, con una famiglia, una casa, dei figli da mantenere, il mutuo da pagare, con una vita, per così dire, tradizionale e anche per questo aveva accettato questo contratto proposto da un’agenzia interinale. Viaggiava ogni notte da San Giorgio Jonico, in provincia di Taranto, fino ad Andria -vorrei che il lettore s’immaginasse questo viaggio – per poi lavorare dieci ore, guadagnando due euro all’ora per poi tornare indietro, a casa. Penso che sia qualcosa di sconvolgente, quasi da non crederci. Eppure lei non era sola, lei è morta, ma c’è un gruppo di donne che continuerà a farlo anche quest’estate, l’orrore continua.

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Nel libro lei afferma che il caporalato è tanto diffuso al Sud quanto al Nord, perché allora si tende a isolare nel Sud la problematica dello sfruttamento?

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C’è uno stereotipo sul Sud delle campagne, degli sfruttati che continua a sopravvivere. Questo fenomeno arriva però sino al Nord, soprattutto nell’edilizia. Da noi ci sono grandi campagne di raccolta e quindi una concentrazione di migranti, ma soprattutto c’è quell’occhio che non si spegne mai, quello sguardo particolare sul Sud. Dobbiamo lottare contro questi preconcetti perché la storia di Paola Clemente poteva accadere in qualunque parte d’Italia, come difatti è successa a Ioan Puscasu a Carmagnola, Torino.

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Paola Clemente era italiana, però tanti nella sua stessa condizione sono stranieri. L’integrazione in che modo diventa uno strumento per combattere lo sfruttamento?

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Spesso i migranti non conoscono i loro diritti. Racconto nel libro le storie di queste persone che arrivano dall’Est chiamati dai loro mediatori e che quando arrivano il caporale dice loro che hanno già un debito, quello del viaggio, per cui lavorano mesi senza essere pagati. Poi devono pagarsi anche vitto e alloggio, quindi la promessa dei duecento euro al mese – che per loro è una promessa importante – si riduce a zero. L’integrazione può servire moltissimo: le associazioni di volontariato fanno un lavoro splendido, così come il sindacato con cui continueremo a lavorare. I libri servono a far camminare un’idea e se quest’idea riuscisse a creare un po’ più di coscienza sarebbe già una vittoria.

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Come si combatte lo sfruttamento?

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Con l’informazione, il volontariato, le associazioni e ovviamente anche la legge. Alla fine del volume allego le leggi contro il caporalato che ci sono già, e altre sono in arrivo. Esiste il bollino etico per la tracciabilità delle merci che fanno parte di una filiera che si autocertifica, anche se l’ideale sarebbe vivere in un mondo in cui l’autocertificazione sia veramente frutto di etica. Mi piacerebbe vivere in un mondo in cui non rendere una persona schiava fosse qualcosa di acquisito ma, purtroppo, viviamo in un mondo totalmente diverso. Finita l’estate del caporalato, l’anno scorso, ci siamo confrontati in riunione di redazione sul nuovo scandalo, quello della Volkswagen, e ho pensato che è lo stesso fenomeno che si ripresenta: è il capitalismo che ci rende sordi e ciechi di fronte a tutto e la logica del guadagno che prevale su ogni cosa.

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E’ tornata a scrivere di cultura, ma c’è un evento di cronaca di cui vorrebbe occuparsi?

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Mi piacerebbe continuare a parlare della tematica del lavoro, che va approfondita moltissimo. Ci siamo soffermati a parlare di crisi per tutti questi anni e non abbiamo visto tutto quello che la crisi ha provocato: credo che in questo momento ci debba interrogare molto a questo proposito. Ho cominciato dai caporali, ma si può arrivare ovunque, ad esempio si può parlare dei neolaureati, delle università. Abbiamo anche un grosso problema con l’identità, quindi mi piacerebbe affrontare le storie che riguardano questo tema che va dal nostro rifiuto dei migranti al rifiuto generico dell’altro e di tutto quello che è diverso da noi. Facciamo tanti dibattiti sulla politica, ma la vera politica, quella che sento come fondamentale, è la politica della vita quotidiana.

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