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Bari, spararono alle gambe di un pusher minorenne: pena ridotta

Per la Cassazione non fu un atto mafia

Pubblicato da: redazione | Mar, 11 Febbraio 2025 - 18:20

 La ‘gambizzazione’, cioè il ferire qualcuno sparando a una gamba, non è un’azione propria solo delle associazioni mafiose, ma è invece “in grado di evocare tanto la criminalità organizzata di tipo mafioso quanto la criminalità ‘comune’, in ipotesi organizzata, e quella operante nel settore degli stupefacenti”. Non basta che vi sia una gambizzazione, insomma, perché si parli di mafia. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nel caso di due baresi di 29 e 39 anni, Francesco Caricola e Francesco Cascella, entrambi difesi dall’avvocato Libio Spadaro e finiti a processo per lesioni personali e detenzione e porto illegale d’arma da fuoco in concorso, nel caso del ferimento di uno spacciatore minorenne avvenuto nel quartiere Poggiofranco di Bari nel settembre 2016. Cascella, secondo quanto ricostruito dall’accusa, avrebbe ideato l’agguato e dato il “placet” al ferimento del giovane, mentre Caricola lo avrebbe attirato sul posto con l’inganno.

A sparare sarebbe stata invece una terza persona. I giudici del primo grado e dell’appello riconobbero nei loro confronti l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, ma la Cassazione annullò la seconda sentenza escludendo l’aggravante. Nel secondo processo d’Appello, la pena nei confronti dei due è stata ridotta a due anni e otto mesi per Caricola (da tre anni e un mese) e a tre anni per Cascella (da tre anni e cinque mesi). Secondo quanto ricostruito, il giovane spacciatore sarebbe stato “reiteratamente avvertito” – come si legge nella seconda sentenza d’appello – di smetterla di spacciare nel quartiere Poggiofranco, zona di influenza del boss Vincenzo Anemolo, “ma ciononostante aveva perseverato nella sua attività, incurante dei moniti ricevuti”, e non avrebbe quindi subito la “condizione di assoggettamento” tipica del vincolo mafioso. Dopo l’ennesimo avvertimento, quindi, sarebbe stato ferito. “Gli avvertimenti tesi a dissuadere la vittima nel perseverare nell’attività di spaccio in una zona di ‘competenza’ di un clan (…) non possono essere ritenuti elementi sintomatici della sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso”, scrivono ancora i giudici dell’Appello.

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