I matrimoni baresi non sono più quelli di una volta. I cambiamenti della società degli ultimi 50 anni hanno modificato non solo la valenza di quello che prima era chiamato ‘lo sposalizio’, ma anche il modo in cui si festeggia e di come lo si vive. Negli anni ’60 e ’70 era tutto più sentito, ma si tratta di un passato ormai lontano e tramontato. Si sono persi alcuni valori o, forse solo cambiati.
A parlarci con entusiasmo e anche con un pizzico di nostalgia del ‘vero matrimonio barese’, quello di una volta per intenderci, è Michele Fanelli che la baresità la conosce molto bene. E’ esperto di tradizioni popolari e difensore strenuo delle stesse. E’ anche il presidente del circolo Acli Dalfino, un vero e proprio salotto in piazza dell’Odegitria, nel cuore di Bari vecchia.
E così Fanelli racconta: “Le tradizioni oggi sono letteralmente cambiate. Oggi ci si sposa senza curare la sacrosanta figura della suocera”. Per chi mastica il dialetto barese la cosiddetta ‘sroche’. Prima le mamme degli sposi avevano un ruolo fondamentale nella preparazione del matrimonio. L’abito della sposa, ad esempio, lo regalava la mamma dello sposo e lo stesso valeva per quello del futuro marito. Nel giorno del matrimonio la suocera regalava una collana d’oro alla nuora, simbolo del vincolo profondo che le avrebbe da quel momento in poi unite per sempre. Poi le due consuocere, che nei giorni che precedevano le nozze, avevano preparato e allestito il letto per i novelli sposi, insieme ai testimoni di nozze, accompagnavano gli sposini nella loro nuova casa e anche nella loro camera da letto.
Secondo ancora quanto descrive Fanelli, negli anni ’60 e ’70 era anche più lunga la preparazione e l’organizzazione del matrimonio. La ragazza, o meglio la sua famiglia, doveva pensare alla dote, un vero e proprio status symbol. Quest’ultima dipendeva dallo situazione economica e sociale della futura sposa. Se la donna proveniva da una famiglia povera la dote era per uno (‘pana iun’ in dialetto). La famiglia media portava invece ‘pana cinque’, cioè il corredo prevedeva cinque paia di lenzuola, di asciugamani, di accappatoio e così via. Fino ad arrivare al massimo della dote che era ‘pana venti’ prevista quando l’uomo portava ‘u quart’ ossia l’appartamento. Nei giorni che precedevano lo sposalizio a casa della futura sposa, veniva esposta la dote, in modo che la suocera e il vicinato potessero controllare se effettivamente il corredo fosse sufficiente. E il controllo era serrato. Con carta e penna veniva trascritto l’elenco dei beni e se mancava qualcosa c’era il rischio che il matrimonio potesse saltare.
Poi c’erano i festeggiamenti. Al mattino, prima della cerimonia a casa della sposa si riunivano tutti gli invitati e si preparava precedentemente , una tavola imbandita con biscotti , dolcetti alla mandorla e liquori fatti in casa. Quando tutti gli invitati erano riuniti, scendevano insieme alla sposa, accompagnata a braccetto dal padre, iniziando un corteo a piedi, fino alla chiesa. “Negli anni 60 e 70 – racconta Fanelli – il matrimonio dei cosiddetti ‘poveri’ prevedeva la messa a mezzogiorno, poi un rinfresco solo per i parenti di lui, mentre i parenti di lei si recavano al ristorante ‘Provolina’. La protagonista della cena la sera era la ‘pagnotta’, con mortadella e provolone. Poi non poteva mancare la cassata messa nel piattino d’argento e ancora le paste ripiene e secche”. Un piccolo complessino suonava e faceva ballare e alla fine, secondo tradizione, era consegnato ‘un pacco famiglia’ e la bomboniera. Il matrimonio dei ricchi era festeggiato al ristorante ‘Barion’, alla ‘Sirenetta ‘o al ‘Transatlantico’.
“Oggi tutto questo non c’è più – chiarisce Fanelli – Gli sposi fanno quello che vogliono, i genitori non contano nulla nelle decisioni. Alla suocera non viene data alcuna importanza. Non viene rispettata alcuna tradizione. Prima – ricorda ancora Fanelli – il matrimonio era illibato”. La donna doveva indossare sette metri di velo bianco, che “rappresentava la purezza e la sacralità del matrimonio”. Poi c’era il matrimonio di chi organizzava la cosiddetta fuitina, in dialetto ‘la zit ascinnut’. Se la donna scappava con l’uomo prima delle nozze “era un disonore. Non si aveva nulla in dote dalla famiglia e ci si sposava di nascosto ai parenti e amici”.
nella foto “Matrimonio case popolari in via Crispi negli anni ’30”