Il 44% di chi lavora da remoto l’ha già fatto – almeno occasionalmente – da luoghi diversi da casa propria, come spazi di coworking, altre sedi dell’azienda o altri luoghi della città, spiega la ricerca che rileva come sono solo i “veri” smart worker, ossia quelli che oltre a lavorare da remoto hanno flessibilità di orari e operano per obiettivi, a presentare livelli di benessere ed engagement più alti dei lavoratori tradizionali in presenza. Tuttavia, “sono più frequentemente vittime di forme di tecnostress e overworking”. Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio, sottolinea le “numerose barriere” per un’applicazione matura dello smart working che non è “un compromesso o un male necessario, nemmeno un diritto acquisto o un fine in sé, ma uno strumento di innovazione per ridisegnare la relazione tra lavoratori e organizzazione”.
Un ruolo fondamentale, indica Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio smart working, è quello dei manager: “I lavoratori con un capo realmente “smart” (che assegna obiettivi chiari, fornisce feedback frequenti e costruttivi, favorisce la crescita professionale e trasmette gli indirizzi strategici) hanno livelli di benessere e prestazioni migliori”. Tutte le grandi imprese prevedono di mantenere lo smart working anche in futuro, solo il 6% si dichiara incerta come nel 20% della Pa e il 19% delle Pmi. Infine, il PoliMi fa sapere che nell’ultimo anno sono state avviate sperimentazioni di nuove forme di flessibilità sul lavoro, tra cui la settimana corta (in meno di una grande azienda su 10). Il 3% delle grandi aziende, invece, ha introdotto le ferie illimitate, il 41% ha eliminato le timbrature e il 44% sta sperimentando il “Temporary distant working” che prevede di lavorare da remoto, in alcuni casi anche dall’estero, per alcune settimane o anche per più mesi, di continuo.