Calunniò un avvocato Barese. Per questa ragione, il collaboratore di giustizia Michele Oreste, è stato condannato a due anni di reclusione. L’accusa è, come evidenziato, quella di calunnia che, secondo quanto emerso, il pentito avrebbe effettuato nei confronti dell’avvocato penalista, Giancarlo Chiariello, condannato a sua volta dal Tribunale di Lecce a 8 anni e 8 mesi di reclusione con l’accusa di corruzione in atti giudiziari assieme all’ex gip Giuseppe De Benedictis. In particolare, nel corso di un interrogatorio avvenuto nel 2019, Oreste aveva rivolto diverse accuse a Chiariello definendolo, inoltre, quasi affiliato a un clan. Dichiarazioni ritenute false che furono utilizzate dal giudice di Lecce per riconoscere nei confronti dell’avvocato l’aggravante dell’agevolazione mafiosa. Chiarello, supportato dal suo difensore Gaetano Sassanelli, aveva già denunciato Oreste chiedendo 100mila euro di risarcimento.
Più nello specifico, nel corso di un interrogatorio avvenuto nel dicembre del 2019, in procura a Bari, l’uomo aveva sostenuto di aver consegnato 25 chili di cocaina a Chiarello come parte della “parcella” per conto dei pregiudicati Vito e Francesco Martiradonna. Secondo quanto dichiarato, i due, con l’aiuto di Tommaso Parisi, erano soliti pagare le parcelle all’avvocato non solo in soldi ma anche “in quantitativi di cocaina”. Lo aveva dichiarato lo stesso Oreste ai pm definendo poi Chiarello sia un “quasi affiliato” al clan di cui fanno parte i Martiradonna, sia un “grande consumatore” di stupefacenti. Ma non solo, Oreste aveva anche affermato di aver effettuato la consegna nei pressi dello studio legale di Chiariello fornendo però un indirizzo errato e aveva inoltre descritto l’avvocato come “paffuto” e con i “capelli con la riga a lato” e gli “occhialini”. Descrizione che però, secondo gli inquirenti, non corrisponde a Chiarello che “solitamente non porta gli occhiali” e inoltre”presenta un’ampia stempiatura”.
Si tratta, secondo il difensore di Chiariello, di una “grande prova di maturità dell’autorità giudiziaria” che con la condanna di un collaboratore per calunnia ha così dimostrato “di avere la forza e la capacità necessarie per discernere le dichiarazioni genuine da quelle avvelenate”. “L’importante però – ha evidenziato infine – è che il sistema sappia porre rimedio agli errori di chi queste dichiarazioni calunniose, invece, le ha valorizzate per applicare un’aggravante dagli effetti devastanti che, a questo punto lo posso dire con ancora più forza, risulta profondamente ingiusta” – conclude.
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