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Dipendente trasferito più volte ad altri incarichi in maniera punitiva: “E’ mobbing”

Pubblicato da: redazione | Sab, 29 Ottobre 2022 - 10:00

Chi credeva che il mobbing non fosse più un tema d’attualità a livello giurisprudenziale per la Cassazione, si sbagliava di grosso. Perché la sezione civile della Cassazione sezione lavoro, con l’ordinanza 32018 depositata il 28 ottobre 2022, ha ribadito alcuni principi fondamentali per la configurabilità e sanzionabilità delle condotte vessatorie da parte dei datori, anche se facenti parte di un ministero dello Stato, che Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, nella battaglia che l’associazione conduce in materia, ritiene utile riportare all’attenzione.

Per la Cassazione va risarcito per mobbing il dipendente pubblico trasferito più volte ad altri incarichi in maniera punitiva. Gli spostamenti continui mascherati da atti organizzativi non hanno infatti alcuna giustificazione quando appaiono irrazionali in modo evidente. Lo ha ricordato la Cassazione che ha respinto il ricorso di un Comune nei confronti di un dipendente che aveva svolto importanti mansioni nel dipartimento edilizia dell’ente locale. Il lavoratore ea stato rinviato a giudizio con l’accusa di concussione ma era stato assolto. Tuttavia da quel momento era cominciato il suo calvario professionale in quanto era stato trasferito più volte presso altri uffici sempre meno prestigiosi fino a diventare del tutto inattivo sul lavoro. Il dipendente, sul presupposto di essere stato vittima di mobbing, ha quindi chiesto la condanna del Comune al risarcimento del danno. Il tribunale ha accolto la domanda e la corte d’appello ha confermato la decisione condannando l’ente locale a risarcire il danno alla salute inflitto al lavoratore.

La vertenza è così giunta in Cassazione dove il Comune ha sostenuto che non vi era prova del mobbing mancando un intento persecutorio. Inoltre il lavoratore versava già in uno stato premorboso e la condotta del Comune avrebbe solo generato un aggravamento della patologia già in atto causata dal procedimento penale. La Suprema corte, nel respingere la domanda, infatti, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, hanno ricordato che, “ai fini della configurabilità di una ipotesi di mobbing, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo  necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio preordinato alla prevaricazione. In sostanza perché sia riscontrabile il mobbing ci devono essere una serie di comportamenti persecutori, la lesione della salute, il nesso eziologico e l’intento persecutorio.

Ebbene, nel caso in esame, nessuna censura può essere mossa alla decisione del giudice di merito che, riconoscendo il mobbing, ha verificato che il Comune aveva adottato una serie di condotte sostanzialmente punitive mascherandole da atti organizzativi che nella realtà non avevano giustificazioni e apparivano irrazionali. Inoltre le vicende processuali penali non avevano inciso sul danno attuale ma solo sulla personalità premorbosa del soggetto rendendolo più esposto a sviluppare una patologia. Con la conseguenza, ha concluso la Cassazione, che quando le condizioni ambientali non possono dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità, non potendo, in tal caso, operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa. Pertanto, Giovanni D’Agata, impegnato in prima persona da anni nella lotta contro il mobbing sui luoghi di lavoro, esprime sincera soddisfazione per il riconoscimento da parte della Suprema Corte, di un principio importante che rafforza le tutele e le garanzie dei lavoratori contro le ingiustizie ed i soprusi sui luoghi di lavoro.

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