Xe, si chiama così la nuova variante covid oggi sotto i riflettori anche in Italia, un mix di Omicron 1 e 2. Sintomi, contagiosità, incubazione, durata: cosa sappiamo? Le prime stime indicano una maggiore contagiosità, come spiega l’Organizzazione mondiale della sanità, che parla di un possibile “vantaggio del tasso di crescita di circa il 10% rispetto a BA.2, ma questo dato richiede un’ulteriore conferma”.
Benché si ipotizzi, dunque, un 10% in più di contagiosità per Xe rispetto a Omicron 2, l’Oms precisa che, finché non verranno riportate “significative differenze nella trasmissibilità” del mutante “e nelle caratteristiche della malattia” che provoca, “inclusa la gravità”, Xe verrà considerata una variante appartenente alla ‘famiglia’ Omicron.
Apparsa in Gran Bretagna il 24 febbraio scorso si sta diffondendo velocemente. Intanto, i dati giornalieri del contagio nel nostro Paese indicano che il tasso di positività è sostanzialmente stabile al 14,5% (dal 14,7 di domenica) con 30.630 nuovi positivi ed altre 125 vittime, il totale delle quali sfiora ormai quota 160mila. Negli ospedali continua a non destare preoccupazione il numero di ricoveri in terapia intensiva, dove i letti occupati sono 483 (6 in meno di domenica), mentre aumentano i pazienti negli altri reparti: 224 in più nelle ultime 24 ore (10.241 in tutto).
Guardando alle terapie intensive, fa sapere il presidente della Società italiana di anestesia, rianimazione e terapia intensiva (Siaarti), Antonino Giarratano, oggi «ci sono tre tipologie di pazienti con Covid-19: i no-vax, che arrivano anche con polmoniti molto gravi e hanno subito bisogno di supporto respiratorio, in alcuni casi anche della circolazione extracorporea». Una seconda categoria è «rappresentata da pazienti fragili vaccinati, come chi soffre di insufficienza cardiaca, respiratoria o renale, cirrosi epatica, diabete, ma anche malati oncologici»; per quest’ultimo gruppo, senza tripla vaccinazione, «avremmo avuto l’80% di mortalità». C’è poi una terza tipologia di pazienti, dichiara Giarratano: sostanzialmente, «chi incorre in problemi gravi come ictus o incidenti e, nel momento in cui viene ammesso in terapia intensiva, si rileva che è positivo, e comunque deve stare in reparti isolati ad hoc per positivi».