“Bruna Bovino aveva subito un’aggressione nel corso della quale aveva lottato prima di subire quei brutali colpi al volto e quando fu atterrata e sovrastata dall’assassino, non poté più muovere le braccia e difendersi dai colpi che le venivano inferti, riusciva però a muovere il capo e le mani, assai verosimilmente in maniera convulsa, nell’istintivo e disperato, ma altresì vano, tentativo di sottrarsi ai colpi che il suo assassino continuava a infliggere”.
Sono solo alcuni passaggi delle motivazioni in base alle quali, la Corte di Assise di Appello di Bari, ha condannato alla pena di 26 anni e 6 mesi di reclusione, Antonio Colamonico. L’uomo, 42nne, è imputato per l’omicidio della donna, sua ex fidanzata, uccisa a Mola di Bari nel dicembre del 2013. Colamonico era stato condannato a 25 anni di reclusione (in primo grado) nel luglio del 2015. Nel novembre del 2018 era stato assolto in appello, mentre il 20 settembre scorso, dopo l’annullamento con rinvio da parte della Cassazione, un nuovo collegio della Corte di Assise ha ribaltato la sentenza dichiarandolo colpevole di omicidio volontario e incendio doloso.
I giudici, negando le attenuanti generiche, hanno evidenziato che l’imputato “non ha mai manifestato segni di resipiscenza e ha reiteratamente fatto dichiarazioni mendaci”. Nelle motivazioni, inoltre, si analizza l’esito degli accertamenti tecnici, tra cui quelli sulle lesioni presenti sulle mani di Colamonico “neppure lontanamente compatibili con l’azione di autolesionismo simulata la sera stessa dell’omicidio, compatibili invece con l’aggressione”. Le graffiature e unghiature – proseguono – sono “connesse al tentativo della Bovino di difendersi nel corso dell’aggressione” così come “le ustioni durante l’appiccamento del fuoco” per occultare le prove del delitto.
Secondo i giudici, inoltre, per quanto riguarda i capelli rossi trovati tra le dita della vittima “è una congettura che appartenessero a una terza persona” e, in particolare ad un “aggressore verosimilmente di sesso femminile” mentre è più probabile che le mani della vittima ,nel corso dell’aggressione “restarono impigliate nei capelli che si intinsero di sostanza ematica e quando già sanguinante si ritrovò le mani dell’assassino intorno al collo, verosimilmente tentò di afferrare le mani del suo aggressore nel tentativo di difendersi”.