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La fuga da Kiev, il racconto di un barese: “Ogni notte ho ancora l’incubo delle bombe” – FOTO

Pubblicato da: Samantha Dell'Edera | Mar, 8 Marzo 2022 - 06:00

Il sibilo delle sirene è ancora vivo nelle orecchie. Nonostante il rientro in Italia, nonostante i giorni che passano, la paura resta dentro e ti cambia. Perché cambia il modo di vedere il mondo, di vedere ciò che si ha. Così come ha cambiato una famiglia di baresi, evacuata con il convoglio dell’ambasciata da Kiev e rientrata in Italia dalla Romania.  Ecco il racconto in esclusiva per Borderline24. Di quasi una settimana di terrore a Kiev e del viaggio interminabile verso la salvezza.

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“Rispetto alla vita precedente ogni volta che sentiamo dei botti, dei fuochi, associamo i rumori della guerra. Ho ancora gli incubi. L’incubo di rimanere bloccato nella neve con i bambini o che accada qualcosa di male a chi ci ha salvato. Abbiamo incontrato degli angeli che ci hanno permesso di ritornare qui, a loro dobbiamo la vita”.

Lo scoppio della guerra

“Dovevamo partire proprio quel giovedì, avevamo preso già il volo. Ma all’alba sentimmo una esplosione. Era scoppiata la guerra. La Russia aveva invaso l’Ucraina”. Così comincia il suo racconto il padre di un piccolo di appena due mesi, rimasto bloccato con la sua famiglia a Kiev. Avevano fatto di tutto per partire prima, ma dovevano attendere dei documenti necessari per lasciare il paese. E quando li hanno avuti, era già troppo tardi.

“Quella mattina non capimmo più nulla – racconta – ci trovammo in una realtà che mai avremmo immaginato. Con file e file di auto in strada, gente che si barricava in casa, con delle barriere alle finestre. Io dopo una serie di peripezie ho preso mia moglie e il piccolo e ho raggiunto insieme ad altre famiglie l’ambasciata. Poi da lì ci siamo spostati nella residenza dell’ambasciatore dove siamo stati per quasi sette giorni”. Giorni di paura, di continui sali e scendi nel piano interrato allestito come bunker, il posto più sicuro della casa in caso di attacchi. “Volevamo tornare a casa, leggevamo gli appelli del nostro Governo a lasciare Kiev ma come facevamo? Senza mezzi, senza protezione”. Il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, ha seguito in prima persona i suoi concittadini, informandosi ogni giorno e pressando la Farnesina per farli rientrare in Italia. “Più passava il tempo più le sirene aumentavano, una sera sono state spente le luci, siamo rimasti sdraiati a terra, non dovevamo muoverci, non potevamo parlare. Vi immaginate con dei bambini piccoli?”

Il giorno dell’evacuazione

Arriva il mercoledì 2 marzo, a quasi una settimana dallo scoppio del conflitto in Ucraina. L’ambasciatore Pierfrancesco Zazo e il console Sergio Federico Nicolaci dicono alle famiglie rifugiate di prendere lo stresso necessario. Perché nel giro di 30 minuti bisognava evacuare. “Noi all’inizio quasi non ci credevamo – continua il racconto – perché più volte nei giorni precedenti avevano detto che ce ne dovevamo andare. Ma questa volta era vero”. In trenta minuti vengono riempiti due bus. E con la delegazione diplomatica il convoglio parte. “Sono stati attimi di panico. C’erano tante famiglie con bimbi piccoli, dovevamo organizzare tutto e andarcene. In pochissimo tempo eravamo pronti. Ricordo ancora la corsa lungo quella discesa ghiacciata che dalla villa portava alla strada, quel giorno a Kiev aveva nevicato”.

Il viaggio

Partito il bus, gli italiani a bordo hanno cominciato a vedere con i loro occhi le conseguenze di una prima settimana di guerra in Ucraina. “Non dimenticherò mai quelle donne con bambini piccoli, camminare per chilometri al gelo, per uscire dalla città. Non dimenticherò mai quella gente che era in attesa alla stazione, e che ci guardava, forse sperando di avere anche loro la possibilità di andarsene su un pullman”.

Il viaggio è stato lunghissimo. Per strada c’erano continui rallentamenti creati apposta con dei pezzi di binario sistemati a stella. In alcuni punti si vedevano delle auto che si erano schiantate. “Erano piene di valigie, ho immaginato qualche papà che così voleva mettere in salvo la proprio famiglia e che non si era accorto di quegli impedimenti, forse hanno dovuto proseguire a piedi”. Più ci si allontanava da Kiev più le strade erano piene di buche. “Non capivo cosa fossero, se conseguenze di bombardamenti o fatte appositamente per fare rallentare le auto”.

Ai lati delle strade c’erano dei sacchi che venivano riempiti di neve e di terra dai residenti. “E c’erano sempre file e file di persone a piedi – continua il racconto – in cerca di una via di salvezza. Ricordo poi che fuori Kiev sembrava che tutto si fosse fermato: le aziende vuote, i centri commerciali che erano stati protetti da barricate forse per evitare razzie”.

In un primo momento i due convogli dovevano arrivare a Leopoli per lasciare l’ambasciatore, ma poi i piani cambiano. Tutti verso la Moldavia. Per un viaggio davvero interminabile. Con bambini di pochi giorni in braccio per ore, senza possibilità di lavarli o di dare loro un posto sicuro per riposare.

Moldavia, Romania e il rientro in Italia

Per varcare il confine con la Moldavia c’era una fila di almeno 15 chilometri. E quando sembrava finalmente vicina la salvezza, un altro intoppo. “Siamo rimasti bloccati perché l’autista ucraino non poteva varcare il confine. La legge imponeva a tutti gli uomini di andare a combattere. Ed allora siamo rimasti per ore nel bus, al freddo, alcuni erano in piedi perché non avevano il posto a sedere. Fin quando l’ambasciata Moldava non ha fatto arrivare questi bus”.

Ci sono stati ulteriori controlli dei passaporti. “Ho assistito ad una scena straziante – continua – sul nostro bus c’era una coppia che lavorava in ambasciata. Lui era ucraino. Lo hanno fatto scendere perché non poteva varcare il confine, alla fine è scesa anche la moglie. E questi due poveracci, che ci hanno aiutato tantissimo, sono stati lasciati lì in mezzo al freddo, al nulla”.

Il viaggio verso la Moldavia è durato circa 24 ore. Con brevissime fermate. “Siamo arrivati in un istituto di salesiani e lì abbiamo visto queste due palestre enormi allestite. In una c’erano i materassi, nell’altra le cose da mangiare. Abbiamo visto i pentoloni di pasta, noi non mangiavamo da due giorni credo. Eravamo stremati. Chi aveva i neonati  è stato accompagnato in un’altra struttura dove c’erano delle stanze con dei bagni”.

Una volta lì però le famiglie si dovevano organizzare autonomamente per rientrare dalla Moldavia alla Romania e all’Italia. “Ci hanno detto che eravamo adulti e ce la potevamo cavare da soli. Il prete dell’istituto ci ha aiutato ad organizzare un pullman. Abbiamo così raggiunto l’aeroporto di Iasi dove l’ambasciatore della Romania ci ha aiutato tantissimo. Così come l’ambasciatore ucraino aveva fatto in precedenza per portarci alla salvezza fuori confine. Nel nostro percorso abbiamo incontrato degli angeli, che ci hanno salvato la vita. A loro andrà per sempre la nostra riconoscenza”.

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