Non avrebbe garantito la sicurezza nel centro di salute mentale di via Tenente Casale, nel quartiere Libertà di Bari, dove, il 4 settembre 2013, la psichiatra barese Paola Labriola è stata uccisa da un paziente con 57 coltellate. Così i giudici del Tribunale di Bari hanno motivato la sentenza con la quale, nell’aprile scorso, è stato condannato l’ex dg della Asl di Bari Domenico Colasanto alla pena di 3 anni e 6 mesi di reclusione.
“La sottovalutazione del tema della sicurezza sul lavoro e la visione del criterio economico come guida principale dell’azione dei vertici dell’Asl – si legge nelle motivazioni della sentenza – ha determinato le scelte di Colasanto di non redigere il documento di valutazione dei rischi dei Centri di salute mentale e di non adottare adeguate misure prevenzionali, così creando le premesse per lasciare privo di adeguati presidi di sicurezza il Csm di via Casale, dove si è verificato il barbaro omicidio della dottoressa Labriola, che esercitava le sue funzioni con abnegazione in un Csm ad alto rischio di sicurezza”.
Colasanto è stato ritenuto responsabile di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e omissione di atti d’ufficio. Secondo i giudici, “vi è stata una sottovalutazione del rischio di aggressioni al personale, sia per l’adesione alle teorie basagliane contrarie alla militarizzazione dei Csm, sia per l’impostazione economicistica delle funzioni della sanità, piegate alle esigenze del budget, che denota la principale preoccupazione di molti manager pubblici della sanità, ossia l’equilibrio di bilancio, piuttosto che la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori”.