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“Squid Game” fa paura ai genitori, gli psicologi di Puglia: “Basta con i modelli di competitività”

Pubblicato da: Rosanna Volpe | Sab, 16 Ottobre 2021 - 06:30
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Sono mamme preoccupate quelle che convivono con bambini e  adolescenti (under 14) inchiodati davanti alla televisione per guardare “Squid Game”: la serie coreana continua a spopolare su Netflix ed è diventata in meno di due settimane il titolo più visto della piattaforma streaming. Certo, i dati devono essere ancora confermati in riferimento alle visualizzazioni raggiunte nelle prime quattro settimane dall’uscita, ma certo è che di “Squid Game” parlano tutti.

La serie è incentrata sulla sopravvivenza mettendo in scena un macabro gioco a cui sono chiamati a partecipare centinaia di uomini e donne che, non avendo nulla da perdere, sono disposti a mettere a repentaglio la propria vita con la speranza di migliorarla aggiudicandosi il ricco premio finale. Crudele, violenta e sadica, la serie racconta, nei fatti, un gioco mortale in cui al superamento delle prove corrisponde la sopravvivenza dei concorrenti. Chi perde o non partecipa correttamente, viene ucciso.

E sono proprio gli adolescenti quelli che più di tutti seguono la serie. “Non dobbiamo stupirci di questo interesse  verso la violenza – spiega il presidente dell’ordine degli psicologi Vincenzo Gesualdo. Cominciano – prosegue – già da bambini a fare giochi in cui il principio non è la condivisione ma l”io'”. Secondo Gesualdo i bambini crescono in un clima di esclusività: devono essere i più bravi e i più forti. “Sono quasi sempre figli unici – prosegue ancora.

E devono quasi sempre rispondere ai bisogni dei loro genitori che li vogliono perfetti e che non accettano quasi mai che abbiano debolezze. Secondo il presidente dell’ordine degli psicologici, se è vero che gli input esterni non aiutano, la famiglia deve tornare ad avere un ruolo di mediazione. E non solo.

“E’ necessario – spiega – fare un passo indietro e mettere da parte i modelli di competitività che inevitabilmente portano a sviluppare aggressività. Dobbiamo tornare ai modelli di appartenenza e di  collaborazione. In questo – conclude – la scuola può avere un ruolo decisivo”.

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