Vendere gioielli rubati al “compro oro” integra il reato di autoreciclaggio. La vendita dei monili, successiva alla condotta illecita e funzionale a dissimulare la provenienza dei beni, integra un’attività economica produttrice di reddito che va, pertanto, perseguita. Lo sancisce la Cassazione con la sentenza n. 36180/21, depositata dalla seconda sezione penale. Accolto il ricorso del Pm contro l’ordinanza del riesame che disponeva la custodia in carcere di un’indagata, escludendo, tuttavia, la gravità indiziaria per il reato di autoriciclaggio.
Nello specifico, la donna vendeva a un compro oro dei gioielli rubati, successivamente fusi, ottenendo in cambio una somma di denaro. La vendita dei monili trafugati non integrava per il tribunale di Brescia il presupposto per la condotta di autoriciclaggio ma la Cassazione non è dello stesso avviso. In termini generali, la Corte ribadisce che la condotta dissimulatoria deve essere successiva al perfezionamento del reato presupposto e, pertanto, non può coincidere con quella costituente elemento materiale del reato. Fatta questa premessa, la vendita di beni «provento di furto» è «sicuramente considerata un’attività economica» utile a integrare la condotta di autoriciclaggio.
E ciò per tutta una serie di ragioni: tale attività è infatti «successiva alla condotta illecita furtiva, funzionale alla dissimulazione della provenienza illecita dei beni in quanto l’immissione nel mercato degli stessi, attraverso la compravendita, ostacola concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa e, infine, la vendita trasforma i beni in denaro integrando sicuramente una attività economica produttrice di reddito».