A 18 anni dall’incidente stradale che gli ha portato via il figlio, la giustizia non ancora fatto il suo corso. Il professore Biagio Moretti, papà di Vincenzo, deceduto la maledetta notta tra il 13 e il 14 aprile 2002, ha raccontato il calvario giudiziario in una lettera. Biagio Moretti è il presidente della fondazione Ciao Vinny, pubblichiamo la lettera integralmente.
“La storia di mio figlio Vincenzo Moretti è purtroppo la storia di tanti ragazzi strappati alla vita da un incidente stradale. Era la notte tra il 13 e il 14 aprile del 2002: assieme a un suo amico e alle sue cugine tornava da una serata in discoteca. Era seduto in una Ford Ka accanto al conducente ed ho saputo che cantavano felici. Qualche minuto dopo, assieme a sua cugina Maria Ester, è morto dopo uno scontro frontale sul lungomare di Bari. Aveva 20 anni, sua cugina appena uno in meno. Sono andati via in un attimo, lasciando un vuoto incolmabile nella vita della sua mamma, dei suoi fratelli e mia. Lo stesso vuoto lasciato dalla giustizia che – a distanza di 18 anni da quella tragica notte – ancora non ci ha dato alcuna risposta su quanto accaduto. Il processo di primo grado è iniziato il 10 maggio 2006 (cioè, quattro anni dopo l’evento) ed è terminato il 18 dicembre 2009. Si sono susseguite diciannove udienze, molte delle quali di mero rinvio, per le ragioni più diverse, senza che venisse espletata alcuna attività funzionale alla decisione.
Sono stati invece necessari sette anni per celebrare il giudizio di appello: per quattro (dal 6 ottobre 2010 al 9 ottobre 2014) il processo è rimasto fermo in attesa della fissazione dell’udienza di trattazione, alla quale sono seguite altre sette udienze per giungere finalmente alla decisione in data 4 ottobre 2016.
Sette anni: un tempo infinitamente lungo. Soprattutto se paragonato a quello assai più breve (soli sette mesi, dal 15 marzo all’11 ottobre 2017) che è stato sufficiente alla Corte di cassazione per annullare con rinvio la sentenza di secondo grado che aveva confermato l’assoluzione del guidatore della Ford Ka, a bordo della quale viaggiavano i nostri ragazzi, e la condanna a due anni e due mesi di reclusione per conducente dell’altra vettura coinvolta nell’incidente. I giudici della Suprema Corte, di fatto, hanno ordinato alla Corte d’appello di Bari di valutare se vi fu concorso di colpa nel causare l’incidente.
Di nuovo, il processo ha dovuto attendere dal 27 novembre 2017, data in cui gli atti sono stati restituiti al Giudice di merito, al 1° marzo 2019 per vedere fissata la prima udienza del nuovo giudizio di appello; a questa si sono susseguiti quattro rinvii, fino all’ultimo che ha fissato la trattazione al 14 gennaio 2021. Intanto sono trascorsi 18 lunghi anni. Diciotto anni durante i quali non è passato giorno in cui non ci siamo chiesti come sia potuto accadere tutto questo. Non sappiamo chi sia stato il responsabile e che cosa sia effettivamente successo in quella maledetta notte. Certo, la verità non ci avrebbe restituito nostro figlio, ma almeno avremmo avuto la sensazione di andare incontro ad un minimo di giustizia. E invece nulla.
Come tutti sanno, dopo la sua morte, è nata la Fondazione, dedicata a lui e a sua cugina, impegnata in progetti sulla sicurezza stradale. Grazie alla stretta collaborazione con il Comune di Bari, siamo entrati nelle scuole, abbiamo parlato ai giovani. Forse qualcuno lo abbiamo anche convinto dell’importanza della responsabilità durante la guida. Abbiamo portato i nostri progetti sulle strade della movida e nelle discoteche. Abbiamo desiderato far rivivere il sorriso dei nostri figli in tanti giovani, cercando di trasformare un episodio doloroso in una occasione di nuova vita. Ma non posso nascondere l’amarezza che la mia famiglia ed io portiamo dentro per una giustizia che fa fatica a dare risposte. Noi ancora aspettiamo la nostra, sicuramente come tante altre famiglie. Perché, se è vero che niente può riportare in vita i nostri angeli, è altrettanto vero che tutti hanno diritto alla verità. Noi aspettiamo ancora e aspetteremo quanto necessario, anche se mi rifiuto di credere che siano necessari più di 18 anni per capire: lo devo a mio figlio, alla sua vita spezzata in un attimo a causa dell’errore di qualcuno ed alla volontà incrollabile della nostra Fondazione di diffondere una nuova “cultura della vita” nei nostri giovani e, permettetemi, anche nelle istituzioni”.