Un dialogo intimo, da diario segreto, tra Marco D’Amore e il Ciro Di Marzio di Gomorra e la «necessità autorale di racconto» dell’artista campano ne hanno fatto un regista. Il regista del film «L’immortale», premiato al Bif&st, il Bari international film festival, con il premio Ettore Scola per il miglior regista di opera prima e seconda.
Già vincitore del nastro d’argento per il miglior regista esordiente, D’Amore spiega di non essersi «mai sentito un interprete tout court, avevo l’esigenza più che di interpretare personaggi di raccontare storie, più che di inventarmi il ritratto di un essere umano di approfondire un tema. Poi la grande fucina di talenti che è Gomorra a un certo punto mi ha offerto la possibilità di sperimentare questo ruolo, ma io non credo di essere un regista, così come non credo di essere un attore, non so che sono. Ho diretto ‘L’immortalè perché l’ho pensato, l’ho interpretato, il personaggio in qualche modo l’ho costruito io nel tempo e dunque era fisiologico che fosse il mio sguardo ad attraversare questa vicenda. Non so se ne racconterò un’altra o in che modo questo avverrà, mi voglio mettere al servizio dei temi, voglio poter sposare delle cause».
Parlando della scelta di raccontare l’infanzia del protagonista, D’Amore rivela che «per interrogare un personaggio scrivo dei diari e un giorno, parlando a questo Ciro di Marzio che come me aveva 38 anni, che più o meno era nato nel mio stesso periodo, che aveva frequentato i miei stessi luoghi ma che, diversamente da me, faceva tutta un’altra vita ed era tutto un altro tipo di uomo, io gli ho detto: ‘però io e te una cosa in comune ce l’abbiamo: siamo stati bambini e tu sicuramente, come me, avrai avuto paura del buio, ti sarà mancata tua madre, avrai desiderato un gelato fuori a un bar con una ragazza. È questa cosa che mi ha fatto partire la scintilla e ho cominciato a scrivere di questo bambino», approfondendo «un’esistenza di cui si era già detto tanto ma che non aveva ancora mostrato forse il lato più intimo, cioè un momento, l’infanzia, in cui la vita è amara ma ci sono dei sogni e dei desideri, e quanto è difficile raccontare che questi sogni svaniscono». D’Amore non risparmia una riflessione sul periodo drammatico che il cinema sta vivendo a causa dell’emergenza Covid.
«Ci sono due discorsi molto distinti – dice – , uno ha a che fare con l’amministrazione politica e legislativa di un mondo che sempre di più rimane alla periferia dei diritti e questo è scandaloso. Noi produciamo, perché siamo una impresa con 300 mila lavoratori dello spettacolo, e quindi è veramente deprimente che non ci sia una regolamentazione, non ci siano ammortizzatori, non ci sia un pensiero legato a questo sistema-lavoro. Dall’altra parte io non posso che rispondere che vengo dal teatro, che è sempre stato in crisi. Noi conviviamo con la crisi, con la precarietà, con le difficoltà e c’è un istinto che ci porta a reagire a tutto questo. Forse una certa crisi profonda può segnare anche un discrimine tra chi questa passione ce l’ha oltre le difficoltà e chi invece non ce l’ha, per cui i palcoscenici e i set sono solo dei luoghi di esibizione e di vanità e magari di questo ne gioverà il nostro mondo». Ansa