“Alcuni giorni ho avuto paura, tanta paura, ma mi è andata bene”. Comincia così il racconto del giornalista Rai Puglia, Nando Nunziante, positivo al coronavirus.
Una lunga sfida, con 12 giorni di febbre alta (compresi quelli prima del ricovero), “10 di questi sono trascorsi attaccati all‘ossigeno. E 6-7 pasticche alle 8, altrettante alle 20 più quella di antibiotico, 3 flebo al dì, tachipirina ogni volta che la febbre superava i 38, ovvero altre 3 al giorno. Dopo 5 tamponi positivi, il primo negativo è arrivato dopo ben 46 giorni”.
La lettera: Quando manca il fiato la vita cambia, in un attimo. Non c’è tempo per pensare, devi respirare. Ogni attimo sembra un’eternità. Ma non vuoi che passi. Perché temi sia l’ultimo. Ogni respiro è una salita e sai che non puoi affrontarla al massimo delle forze. E allora si insinua sottopelle, fra le maglie del febbrone, anche un altro subdolo germe che in 52 anni non avevo mai avuto il dispiacere di conoscere: il panico.
E’ un altro fronte che si apre: brividi, sudori freddi, senso di soffocamento. Ma distrarsi può essere fatale, bisogna cercare di respirare. E’ l’istinto di sopravvivenza, l’attaccamento alla vita. Sono forze prometeiche, anche nei momenti di maggiore debolezza, quando pure affiora l’idea di non farcela. Flash, nulla più, ma dirompenti per l’energia che sprigionavano: mia moglie, i miei genitori, mia sorella, gli amici di sempre, schegge di vita mi scorrevano davanti come in un frullatore impazzito. Attimi di dinamite emotiva che sospingevano i polmoni in affanno, come Bartali sul Pordoi. Soprattutto nelle infinite notti insonni.
Quando ho avuto la prima crisi respiratoria, mi sono aggrappato anche a quel pulsante rosso accanto al letto per chiedere aiuto. Erano solo in tre per volta gli infermieri a badare a tutto il reparto di Malattie Infettive del Policlinico, pieno di sofferenze ed incertezze dinanzi ai lineamenti sfuggenti del nuovo killer. Non era colpa loro, ovviamente, ma ogni minuto di attesa sembrava non finire mai. Quando arrivavano, però, sembrava il Settimo Cavalleggeri del generale Custer, anche se io ho sempre tifato per gli indiani. Il solo vederli squarciava il velo dell’ansia e spalancava quello della fiducia. Erano bardati e madidi sotto quelli scafandri, vedevo solo i loro occhi. Ma bastava.
La paura per questo tornado sconosciuto che ci ha travolti traspariva talvolta anche dai loro sguardi, che però, pur velati da occhiali e visiere, mi dicevano e mi sostenevano molto più di mille parole. L’allegra cordialità di Pia, la fede di Ada, la vitale prorompenza di Salvatore, la disponibilità di Tonio arrivato a dar man forte da un altro reparto. Di tutti loro, anche di quelli di cui purtroppo non so o non ricordo il nome, preserverò un dettaglio, un ricordo indelebile che nessun camice o tuta potrà mai obnubilare. A loro la mia gratitudine, così come ai medici, tutti, il rassicurante professor Angarano e la professoressa Saracino, fra gli altri, che mi comunicò la possibilità di tornare a casa con un’empatia quasi da sorella.
Grato anche a chi alle 7 entrava per mantenere linda la stanza, come il signore che ci raccontava del figlio operato più volte a cuore aperto ma che cercava sempre di strapparci un sorriso… grato ad Angela e Carmen che dopo son venute e casa per i tamponi, spandendo ottimismo, nonostante tutto: “E’ il nostro lavoro, lo amiamo, abbiamo scelto di farlo”… In stanza con me c’era il giovane e ardimentoso Giuseppe. Abbiamo condiviso quel tempo incerto che ci ha segnati, la pastina e le flebo, sorreggendoci come due vecchi amici, respingendo gli spifferi sinistri con la mano tesa l’uno verso l’altro, rubando una risata alle ore immobili. E con me c’era sempre e soprattutto Antonella, il mio angelo. Era solo lei che volevo sentire nei momenti peggiori, tranne quando non ce la facevo proprio: o cercavo di parlarle o respiravo. Bastava la sua voce, anche solo per un attimo, a slanciare il sistema immunitario, sferzare i polmoni e mettere le ali al cuore…
Alcuni giorni ho avuto paura, tanta paura, ma mi è andata bene. 12 giorni di febbre alta (compresi quelli prima del ricovero), tanti, 10 attaccato all‘ossigeno. 6/7 pasticche alle 8, altrettante alle 20 più quella di antibiotico, 3 flebo al dì, tachipirina ogni volta che la febbre superava i 38, ovvero altre 3 al giorno. Dopo 5 tamponi positivi, il primo negativo è arrivato dopo ben 46 giorni.
Ma tosse e senso di ingombro allo sterno, pur diminuiti, dopo quasi due mesi non sono ancora passati. Ora saranno visita ed esami, soprattutto la TAC, a fare chiarezza su questi strascichi ostinati. E a dirmi se sono guarito completamente. Ma una cosa è certa. Con questo subdolo nemico non si scherza. Dopo aver compresso la nostra libertà per tanto tempo, abbiamo tutti un’incommensurabile voglia di esplodere, di dispiegare in ogniddove i colori delle nostre energie sopite. Ma attenzione, perché non è finita. E non lo sarà per un bel po’. Prudenza è il minimo tributo che dovremo continuare a pagare, ma non c’è alternativa se non vogliamo riprecipitare nell’alienazione dell’isolamento coatto. Quando in ambulanza tornavo a casa guardavo esterrefatto le vie vuote di questa vita sospesa. Siamo come nel quadro di Magritte che ho allegato: le case sono ancora in una strada al buio dove c’è solo un flebile lampione, ma il cielo azzurro è appena sopra i tetti e le nostre teste. Dipenderà da noi. La parola chiave è una sola: responsabilità. Perché la leggerezza di uno potremmo pagarla in tanti.
Da questa pandemia dovremmo aver imparato qualcosa, però. Innanzitutto che il nostro meraviglioso pianeta senza di noi è rinato. Ricordiamocelo: siamo noi ad aver bisogno della sua bellezza, molto più di quello che crediamo. Non il contrario.
Dovremmo aver riscoperto la nostra casa, poi, quella che spesso ci manca. Chi si annoia se lo merita, perché evidentemente non ha saputo costruire un nido con quello che fa star bene, ma una dimora vuota, più che altro un misero ricovero. Io nella mia ci sto benissimo, circondato dai compagni che ho scelto, quelli che non tradiscono mai: i libri, i dischi, i film, gli oggetti che attivano la memoria, talvolta anche involontariamente, come le madeleine di Proust. Qualche volta si disvela anche qualcosa di nuovo, di cui, distratto, non mi ero accorto o avevo dimenticato. E mi sorprendo con queste piccole cose, come Gelsomina che scopre la vita.
Soprattutto, però, dovremmo aver reimparato il valore del tempo, che dà senso ai nostri giorni. Il tempo che non fa sconti a nessuno perché non torna più. Chi non sa che farsene insulta la vita e chi gliel’ha donata, il peccato più imperdonabile. Il tempo che si può utilizzare anche per gli altri raddoppiando la soddisfazione, la nostra e quella delle persone a cui lo dedichiamo. Ancor di più in questo mondo avviluppato dalle distanze. Che però non devono dividere, ma unirci, renderci più solidali, pronti ad aiutare chi non ce la fa.
E’ il miracolo a cui dobbiamo contribuire tutti, per cercare di dare un senso a tutto questo dolore, alla memoria di chi se n’è andato senza nemmeno un saluto, a chi è ancora più solo, allo smarrimento di chi non ha più certezze né riferimenti, nella vita e nel lavoro svanito.
Per me è stato il miracolo dei tanti messaggi sul cellulare e dei vostri commenti al mio precedente post. Rivedevo i vostri volti uno ad uno, ogni sillaba suonava come una gemma di calore per l’anima…nei momenti più bui li ho riletti più volte, perché mi infondevano tenerezza, ma anche una forza titanica. Non lo dimenticherò, mai.
La vita è un attimo, questo ho capito ancor di più quando non riuscivo a respirare. Ma un attimo possiamo renderlo eterno, se amiamo la vita negli occhi e nel cuore degli altri. Anche semplicemente con un pensiero o un messaggio di poche parole. Perché non ci si salva mai da soli. Non amo le citazioni, ma una la faccio spesso perché queste parole di Heinrich Boll avrei voluto scriverle io: “Sono un clown, e faccio collezione di attimi”. Ora più che mai…