Il primo atto ufficiale del Governo è del 31 gennaio, con la dichiarazione dello stato di emergenza (per sei mesi) a causa proprio del coronavirus. “Si dichiara – si legge nel documento del Consiglio dei ministri – lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”. Una presa di posizione già tardiva se si pensa che il 22 e il 27 gennaio erano state diramate due circolari interne al Ministero della Salute che contenevano, tra l’altro, indicazioni sulla gestione dei casi nelle strutture sanitarie, l’utilizzo dei DPI (dispositivi di protezione) per il personale sanitario e le precauzioni standard di biosicurezza.
Chi lo rivela? Un altro documento del Ministero della Salute, datato il 22 febbraio, nel quale appunto si fa riferimento a tutte le disposizioni precedentemente indicate un mese prima. Un mese prima del primo contagio del paziente 1 a Codogno (18 febbraio). Quella scoperta che ha dato il via all’escalation più drammatica della storia del Dopoguerra: con oltre 6mila morti, 63mila contagiati (dati aggiornati al 23 marzo). E mentre il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, oggi, in una nota per il 76° anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, invita ad essere uniti come nel Dopoguerra per la rinascita, la cronistoria di quanto avvenuto da gennaio ad oggi non fa turbare solo il New York Times.
Già dal 22 gennaio si conoscevano gli effetti di questa pandemia, “dichiarata dal Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale” . A febbraio il ministero della Salute specificava: “Secondo uno degli scenari possibili delineati dal Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (ECDC), non è escluso che il numero dei casi individuati in Europa possa aumentare rapidamente nei prossimi giorni e settimane, inizialmente con trasmissione locale sostenuta localizzata, e, qualora le misure di contenimento non risultassero sufficienti, poi diffusa con una crescente pressione sul sistema sanitario”.
Tutto era già stato definito: come organizzare gli ospedali, come tutelare il personale medico e infermieristico, il percorso specifico da segure per i pazienti sospetti. Tutto scritto nero su bianco in un documento a firma del direttore generale Claudio D’Amario.
Ed allora. Perché si è atteso tanto per avviare tutta la macchina organizzativa, per chiudere le zone rosse, per chiudere l’Italia? Perché dal 31 gennaio, giorno in cui è stato dichiarato lo stato di emergenza, sono passate altre settimane prima di atti ufficiali. Precisamente si è arrivati al 23 febbraio, con le limitazioni nelle zone rosse. Ricordiamo che il primo paziente contagiato è del 18 febbraio (peggiorato e portato in rianimazione il 20 febbraio) . A Bari si è tenuta persino la messa di Papa Francesco con 40mila persone in piazza Libertà. Poi arriviamo al 4 marzo con il decreto di chiusura dell’Italia. Successivamente sono seguite le misure più stringenti fino all’ultima, quella del 22 marzo, con il divieto di spostamento dai comuni. Perché all’inizio della pandemia era tutto un “allarmismo mediatico”? Perché si è atteso tanto?