La prima sezione civile del Tribunale di Bari ha condannato la Arnoldo Mondadori Editore Spa, l’ex direttore del settimanale Panorama Giorgio Mulè, attualmente deputato di Forza Italia, e il giornalista Giacomo Amadori al risarcimento di circa 98mila euro (tra ristoro del danno non patrimoniale, sanzione pecuniaria e spese) nei confronti dell’ex giudice barese Susanna De Felice.
Il settimanale, tra il 20 febbraio e il 24 luglio 2013, aveva pubblicato sette articoli sul giudice che nell’ottobre 2012 aveva assolto l’allora presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, dal reato di abuso d’ufficio relativo alla nomina di un primario dell’ospedale San Paolo di Bari, insinuando che lo avesse fatto «non perché la cosa prospettata fosse infondata ma perché amica di famiglia». Secondo il Tribunale di Bari, si è trattato «campagna diffamatoria a puntate» attraverso la «pubblicazione di articoli costruiti ad arte sulla base di notizie non vere». Il giornalista avrebbe così «insinuato nell’opinione pubblica il sospetto» di «una forma di giustizia addomesticata a misura di potenti e amici». In quegli articoli il settimanale raccontava di feste e cene – risalenti al 2006 – alle quali il giudice e la sorella di Vendola, in una occasione, lo stesso governatore pugliese, sedevano allo stesso tavolo, corredando gli scritti con foto sulle quali, secondo il Tribunale, sarebbe stato «eretto l’intero castello accusatorio». Per questi fatti il giudice De Felice ha subito anche un procedimento penale a Lecce per abuso d’ufficio, poi archiviato.
«L’offesa all’onore e alla reputazione del giudice – si legge nella sentenza – si è realizzata attraverso una pluralità di articoli che hanno storicamente costituito le tappe di una aggressione mediatica via via più violenta, attraverso cui si è cercato di stimolare, con crescente intensità, l’appetito dei lettori fornendo loro notizie di fatti falsi. L’articolista attraverso malevole allusioni, scaltri accostamenti, titoli ad effetto, strategici impieghi del materiale fotografico, offre l’immagine deformata e dequalificante di un magistrato che, abusando della funzione pubblica attribuitale, esercita in modo parziale la giurisdizione penale, assicurando un esito assolutorio ad imputati indirettamente vicini al giudice, in ragione dei rapporti di amicizia o comunque di frequentazione abituale che legano lo stesso giudicante alla famiglia dell’imputato».