Lancio di oggetti, sputi, graffi, schiaffi e pugni, tentata aggressione, spintoni, calci e così via. Ma anche violenze verbali (urla, offese, insulti, minacce ecc.). E non una, ma due, tre volte.
È così che infermieri e medici sono spesso “accolti” da quei pazienti, quegli assistiti, quelle persone di cui si stanno prendendo cura nel loro lavoro quotidiano, di prima linea a difesa della salute.
Atteggiamenti legati indubbiamente alla tensione e alle paure che generano i problemi di salute, purtroppo il più delle volte anche gravi, di chi si presenta in una struttura sanitaria o chiama un medico o un sanitario presso la propria abitazione.
Ma è necessario che i cittadini comprendano che medici e infermieri lavorano per loro e per il loro bene e non li aggrediscano, ma li mettano nelle condizioni di dare il meglio di sé per poterli davvero aiutare.
Le conseguenze delle aggressioni infatti vanno a scapito dell’assistenza: chi subisce violenze ha poi un calo di attenzione, difficoltà di concentrazione per l’intero turno, paura e rabbia, tende a delegare le proprie attività verso l’utente a un altro collega e arriva anche a soffrire di un comportamento di esclusione tale da compromettere l’esecuzione dei propri compiti.
Una situazione sempre più grave.
L’89,6% degli infermieri – in prima linea ad esempio nel triage ospedaliero che “accoglie” i pazienti e li smista nella struttura con tempi spesso lunghi non dovuti però alla professionalità dell’operatore, ma all’organizzazione – è stato vittima, secondo una ricerca condotta dall’Università di Tor Vergata di Roma, di violenza fisica/verbale/telefonica o di molestie sessuali da parte dell’utenza sui luoghi di lavoro: nel 43,1% dei casi si tratta di lancio di oggetti e sempre nel 43,1% di casi di sputi verso l’operatore sanitario, ma a seguire (39,1%) ci sono graffi, schiaffi e pugni (37,2%), tentata aggressione (36,6%) spintoni (35,4%), calci (26,2%). Le violenze verbali sono state registrate nel 26,6% dei casi per più di 15 volte, ma nel 35,7% tra 4 e 15 volte e nel 31,9% dei casi da una a tre volte.
I medici contano una media di 3 aggressioni al giorno. Solo la punta dell’iceberg, sottolineano: molti medici e infermieri non denunciano, per pudore, per vergogna, per timore di ritorsioni, perché ci si è abituati alla violenza. Secondo un recente sondaggio Anaao Assomed, il maggior sindacato degli ospedalieri, il 65% dei medici dice di essere stato vittima di aggressioni, il 66,19% ha subito aggressioni verbali, il 33,81% ha subito aggressioni fisiche. La percentuale di chi è stato aggredito sale all’80% per i medici in servizio nei Pronto soccorso e al 118. Insomma, la violenza è un problema che condiziona sempre di più l’attività di medici, infermieri e operatori sanitari.
In Parlamento da circa un anno c’è un disegno di legge a firma dell’allora ministro Giulia Grillo che ha superato l’esame della Camera e attende il via libera del Senato, il quale prende contromisure rispetto a questo fenomeno allarmante, prevedendo tra l’altro aggravanti per chi commette atti di violenza contro gli esercenti le professioni sanitarie mentre lavorano e l’istituzione di un Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli operatori sanitari presso il ministero della Salute per monitorare gli episodi di violenza e l’attuazione delle misure di prevenzione. Ci sono altri progetti di legge, che introducono la procedibilità d’ufficio o prevedono presidi di polizia nei pronto soccorso, le cui disposizioni potrebbero essere utilmente integrate nel testo.
Ma intanto infermieri e medici sono a rischio e le due Federazioni che li rappresentano – la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (FNOPI) e la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri (FNOMCEO) – hanno messo in campo veri e propri corsi di addestramento per mettere in grado i propri iscritti di prevenire il fenomeno.
I corsi FAD (formazione a distanza) specifici, si basano su interventi di comunicazione verbale e non, con l’obiettivo di diminuire tensione e aggressività nella relazione interpersonale. E consentono di avere a chi conclude il corso anche numerosi crediti ECM, l’educazione medica continua necessaria per rimanere abilitati all’esercizio della professione.
Il progetto si chiama “C.A.R.E. (Consapevolezza, Ascolto, Riconoscimento, Empatia) – Prevenire, riconoscere, disinnescare l’aggressività e la violenza contro gli operatori della salute” ed è composto di 12 sezioni; per ogni sezione sono previste alcune attività obbligatorie: uno o più video relativi ad argomenti specifici; la consultazione dei testi dei video; un questionario di valutazione ECM con domande a risposta multipla che sondano le conoscenze acquisite.
Il responsabile-realizzatore dei corsi è il Prof. Massimo Picozzi, psichiatra, criminologo e scrittore, docente per la Polizia di Stato e per l’Arma dei Carabinieri, responsabile del laboratorio di “Comunicazione non verbale e gestione dei conflitti” presso lo IULM di Milano.
La filosofia del corso si basa sulla de-escalation, una serie di interventi basati sulla comunicazione verbale e non verbale, appunto, che hanno l’obiettivo di diminuire l’intensità della tensione e dell’aggressività nella relazione interpersonale.
Utilizzare toni pacati, un linguaggio socioculturale in linea con l’interlocutore, non sovrapporsi alle parole della persona, accertarsi di essersi fatti capire e capire, non utilizzare toni accusatori o paternalistici, non rispondere con modalità aggressive e poi anche mantenere sempre il contatto visivo, la distanza di sicurezza, la risonanza emotiva (Es. se lui si alza, anche io mi alzo), evitare qualsiasi contatto fisico, anche quando sembra che la situazione sia risolta sono solo alcuni degli atteggiamenti da imparare e utilizzare in caso di tentativo di aggressione.
“Abbiamo deciso di agire anche perché uno dei dati a nostro avviso più allarmanti – spiega il presidente della FnomCeO, Filippo Anelli – è la rassegnazione che emerge dai racconti dei nostri colleghi: il 48% di chi ha subito un’aggressione verbale ritiene l’evento ‘abituale’, il 12% ‘inevitabile’, quasi come se facesse parte della routine o fosse da annoverare tra i normali rischi professionali. Le percentuali cambiano di poco in coloro che hanno subito violenza fisica: quasi il 16% ritiene l’evento ‘inevitabile’, il 42% lo considera ‘abituale’”.
“Questa percezione falsata e quasi rassegnata del fenomeno – aggiunge Anelli – porta con sé gravi effetti collaterali, come la mancata denuncia alle autorità, l’immobilismo dei decisori, ma anche il burnout dei professionisti, con esaurimento emotivo, perdita del senso del sé e demotivazione nello svolgimento della professione”.
“La nostra professione – ha commentato la presidente della Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche Barbara Mangiacavalli, la più numerosa d’Italia e che vede coinvolti negli atti di violenza una percentuale altissima di infermieri – ha come scopo il rapporto coi pazienti. È per noi un elemento valoriale importante sia professionalmente che per il ‘patto col cittadino’ che da anni ci caratterizza. Per noi è essenziale avere una relazione privilegiata con loro, per comprendere come ci vedono e come possiamo soddisfare nel modo migliore i loro bisogni di salute. E saper affrontare alla radice i loro problemi che poi sfociano in pericolose forme di aggressività è essenziale per la salute dei nostri professionisti, ma anche e soprattutto per quella degli assistiti che si trovano poi di fronte operatori impauriti e demotivati”.