Il Mediterraneo cambia. Per mano dell’uomo, soprattutto, che con le sue azioni ha inciso negli ultimi secoli, dalla rivoluzione industriale in poi, sull’ambiente che lo circonda, inquinandelo e facendo innalzare le temperature. Una mano che ha causato un cambiamento deciso del mare che ci circonda e innescato un processo di tropicalizzazione che permette a specie prima sconosciute sulle nostre coste di apparire sempre più frequentemente.
Gianluca Cirelli e Maurizio Ingrosso sono due biologi che operano per il Wwf di Policoro. Si tratta di una sede strategica per l’associazione ambientalista perché coordina le ricerche e gli interventi di tutela delle tartarughe marine Caretta caretta presenti nello Ionio. Conoscono bene le caratteristiche dei nostri mari e le loro evoluzioni.
“Da alcuni decenni a questa parte assistiamo a dei cambiamenti che l’uomo ha innescato a partire dalla seconda rivoluzione industriale. Con l’aumento dell’uso dei combustibili fossili, la Co2 in atmosfera ha cominciato ad aumentare. Questo ha esaltato il fenomeno naturale dell’effetto serra. Col tempo le temperature hanno cominciato ad aumentare. Questa condizione si è associata ad altre azioni umane come l’allargamento del canale di Suez”.
Quali specie si possono incontrare e quali non troviamo più?
“Il Lion fish, ad esempio, originario del mar Rosso. Ha trovato nel Mediterraneo un ambiente adatto alla sopravvivenza oggi in Sicilia o a Cipro capita di pescarlo. Le colonie di Posidonia, pianta marina indispensabile per la biodiversitá del mare e per mitigare la forza delle onde sulla spiaggia, invece, spesso sono soggette a sostituzione ad opera di un’altra pianta detta Caulerpa taxifolia. Questa si riproduce molto velocemente e in grandi quantità. E’ giunta a noi probabilmente a causa degli acquari. Alcune specie, poi, entrano nei nostri mari con le acque di fontina delle grandi navi. Questi organismi può succedere che si accrescono e formano delle popolazioni stabili. Vengono definite specie aliene. Altre volte il numero diventa elevatissimo e diventano specie invasive o pest species”.
Quali sono le responsabilità dell’uomo e dove si può arrivare se non dovesse cambiare la situazione?
“Il futuro si prospetta all’insegna della lotta all’inquinamento dilagante. Primo su tutti la plastica, che oggi affligge l’80% delle tartarughe che arrivano al nostro centro di recupero, ad esempio. La plastica è prodotta dall’uomo e rientra ormai anche nella sua catena alimentare. La plastica però rappresenta per noi un’opportunità: è un problema che può essere visto e toccato (la co2 molto più difficilmente) e come tale tutti possono contribuire a risolverlo. Per questo noi coinvolgiamo la gente nelle nostre attività di ricerca e grazie al contributo di chi partecipa possiamo da un lato finanziare la ricerca e dall’altro far capire alla gente che il territorio che la circonda rappresenta un patrimonio. Patrimonio che seppur indisponibile è un capitale naturale e, come tale, la sua conservazione e la sua valorizzazione, in primo luogo a livello turistico, contribuisce allo sviluppo sostenibile del territorio”.
Come si può definire questo sistema sostenibile?
“Questo meccanismo è chiamato citizen science o scienza dei cittandini. Noi la portiamo avanti prendendo spunto dalle azioni del Wwf italia e creando sul territorio una rete con altre associazioni come GreenRope e Jonian Dolphin Conservation con i quali promuoviamo l’educazione dei più piccoli. Questi una volta a casa fungono da disseminatori di messaggi positivi”
Quali altri aspetti possono essere importanti?
“Nella nostra oasi stiamo investendo molto anche nella mobilità sostenibile: tutti i nostri volontari si muovono in bici. Questo da un lato diminuisce le nostre emissioni di Co2, dall’altro l’aumento di mezzi a lento scorrimento diminuisce la possibilità di collidere con gli animali selvatici della nostra riserva”.