La parola “doping” identifica l’assunzione di sostanze finalizzate a migliorare le prestazioni dell’atleta. In ambito sportivo, facendo riferimento alla normativa dettata dal Wada, l’utilizzo di sostanze dopanti è di regola punito come illecito sportivo, cui conseguono sanzioni disciplinari come squalifiche e radiazioni.
Nell’ordinamento italiano, poi, la legge n. 376 del 2000, in linea con le convenzioni comunitarie e titolata “Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping” ha introdotto il reato di doping. Analizzando la predetta legge vediamo che il suo articolo 9 punisce “chiunque procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di farmaci o sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricomprese nelle classi previste all’articolo 2, comma 1, che non siano giustificati da condizioni patologiche e siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero siano diretti a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze” con la reclusione da 3 mesi a 3 anni e con la multa da euro 2.582 a 51.645, salvo che il fatto costituisca più grave reato. Medesima pena è prevista anche per “chi adotta o si sottopone alle pratiche mediche ricomprese nelle classi previste all’articolo 2, comma 1”.
Ebbene, si tratta di uno spettro più ampio di quello previsto nella definizione di doping sportivo giacché, oltre alla somministrazione e l’assunzione, punisce anche il procurare ad altri le sostanze vietate ed il favorirne comunque l’utilizzo, in altre parole è equiparato al doping anche il procacciamento di farmaci vietati, indipendentemente dal loro utilizzo effettivo. Ne consegue che può essere dichiarato soggetto attivo del reato di doping non solo l’atleta tesserato ma anche: l’allenatore, il preparatore atletico, il medico sociale o l’ufficiale di gara che gliele somministra e qualsiasi altro soggetto anche non tesserato.
L’oggetto principale della tutela penale del doping è rappresentato dalla salute di chi pratica attività sportive o, come si legge nell’art. 1 della legge del 2000, dalla integrità psicofisica degli sportivi.
La positività alle analisi delle urine degli atleti, infatti, è il requisito sufficiente per la verifica della violazione disciplinare nell’ambito dell’ordinamento sportivo. Per quanto concerne la giustizia ordinaria penale, invece, la positività deve essere idonea ad incidere sull’organismo in termini di “pericolo per la salute”, in aggravante del reato che rende pertanto punibile la pratica, prescindendo dal verificarsi di un qualche danno effettivo.
Per info e approfondimenti: avvocato@valentinaporzia.com