E’ ancora caccia al presunto boss di Bitonto, Domenico Conte, accusato dalla Dda di essere il mandante delle sparatorie che, lo scorso dicembre, provocarono la morte della 82enne Anna Rosa Tarantino. Il capo clan è fuggito all’arresto di polizia e carabinieri e, ad oggi, è ancora irriperibile.
Il 17 marzo scorso carabinieri e polizia hanno arrestato sette persone ritenute responsabili dei quattro agguati dello scorso dicembre fra i due clan rivali Conte e Cipriano nell’ambito di una “guerra” per il controllo delle piazze di spaccio in città. Alcuni di loro, fra i quali gli esecutori materiali della sparatoria nel centro storico nella quale morì l’anziana, hanno deciso nelle settimane successive agli arresti di collaborare con gli inquirenti e con le loro dichiarazioni i pm Ettore Cardinali e Marco D’Agostino hanno chiuso il cerchio su quella mattinata di fuoco.
Intanto, ha negato di aver ricevuto dal capoclan Domenico Conte l’ordine di uccidere e di aver conseguentemente portato quel messaggio ai killer di Anna Rosa Tarantino il 27enne Alessandro D’Elia, arrestato il 20 aprile scorso nell’ambito dell’indagine della Dda di Bari sull’agguato commesso a Bitonto (Bari) il 30 dicembre scorso che costò la vita, per errore, all’anziana donna. Dinanzi al gip che ha emesso l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, Giovanni Anglana, D’Elia ha risposto alle domande contestando tutti gli addebiti. Secondo i pm Ettore Cardinali e Marco D’Agostino, sulla base soprattutto delle dichiarazioni dei due presunti esecutori materiali dell’omicidio, Rocco Papaleo e Michele Sabba, da alcune settimane collaboratori di giustizia, Conte sarebbe stato il mandante del delitto e D’Elia il messaggero dell’ordine. Ricostruzione che il 27enne ha negato.
Stando all’imputazione formulata dai pm baresi, Sabba e Papaleo avrebbero agito “su espresso mandato di Conte e avvisati da D’Elia, il quale aveva riferito che il boss aveva ordinato, per reagire alla sparatoria subita qualche minuto prima, di sparare a chiunque avessero incontrato dei Cipriani”. Ai due indagati la Dda contesta i reati di omicidio volontario e tentato omicidio (nell’agguato rimase ferito il vero bersaglio dei sicari, Giuseppe Casadibari, anche lui divenuto collaboratore di giustizia) aggravati dal metodo mafioso.