“Per la croce pettorale e il bastone pastorale scelse il legno di ulivo. Per anello, la fede nuziale di sua madre, testimonianza dell’amore dei suoi genitori da cui era nato lui, un vescovo che diede potere ai segni e non usò i segni del potere”.
Così Luigi Sparapano, direttore del settimanale Luce e vita e responsabile dell’ufficio comunicazioni sociali diocesi di Molfetta, prova a riassumere in poche parole don Antonio Bello, per tutti don Tonino Bello, uomo e sacerdote. È per un omaggio a lui e i 25 anni della sua morte che Papa Francesco sarà nei prossimi giorni in Puglia. Persona di una intelligenza straordinaria, conosciuta da Sparapano all’età di 17 anni, che ha lottato fino agli ultimi suoi giorni per la pace e la non violenza, per il disarmo (per cui promosse l’obiezione fiscale “per non dare soldi a chi produce armi per uccidere persone”) e contro le guerre, marciando con la sua Pax Christi, di cui era presidente nazionale, a pochi mesi dalla morte per malattia, fino a Sarajevo assediata dalla guerra nella ex Jugoslavia dei primi anni Novanta. Il vescovo degli ultimi, dei migranti, dei poveri, era figura molto amata dai giovani e anche da chi non era credente.
“Quando fu nominato vescovo di Molfetta fece, come da vecchio Concordato Stato – Chiesa, il giuramento davanti al presidente della Repubblica Sandro Pertini. L’allora capo dello Stato rimase colpito da quella croce semplice, di legno. La fissò continuamente e fu impressionato dalla personalità di don Tonino, tanto che si fece donare quella croce. Un simbolo, appunto, che sarebbe bello recuperato attraverso la Fondazione Pertini”
Era quindi importante per lui scegliere dei segni che rappresentassero davvero l’impegno cristiano
“Sì. Credeva nella profondità dei segni, che noi abbiamo oggi svuotato. Come simbolo del suo vescovado, carica che rifiutò due volte prima di accettare come volontà di Dio, scelse lo scudo con la croce e le ali, stemma di Alessano, il suo paese di origine in Salento, dove Papa Francesco si recherà prima di venire a Molfetta. ‘Ascoltino gli umili e si rallegrino’ è ciò che era scritto per sua scelta. Una frase che ricorda il compito del vescovo di alleggerire la croce di ogni persona della sua comunità “
Che vescovo è stato don Tonino?
“E’ stato un vescovo e un cristiano fino in fondo, anzi, fino in cima diceva lui. Siamo tutti cristiani, ma questo poco traspare nella pratica delle nostre vite. In lui, invece, la scelta evangelica traspariva”.
Perché è ricordato come il vescovo degli ultimi?
“Perché fu sempre con loro. Uno dei motivi per cui rifiutò due volte di accettare la carica di vescovo fu proprio quello di voler rimanere per le strade, tra i campi, nelle fabbriche, con gli ultimi”.
E da vescovo continuò a farlo. Può raccontare qualche episodio che ci faccia comprendere il suo operato?
“Si conosce la sua lotta per la difesa del lavoro accanto agli operai delle acciaierie di Giovinazzo. Manifestò al loro fianco e ne dovette rispondere davanti a un giudice. Gli disse dovrete arrestare anche me. Ma la sua vicinanza e solidarietà agli operai andò oltre la protesta. Fece raccogliere i soldi nelle casse della curia finalizzate alla costruzioni di nuove chiese e li distribuì alle famiglie di quegli operai. ‘Le chiese possano aspettare ma le famiglie e i figli no’, spiegò. Fu vicino anche agli sfrattati di Molfetta e ai migranti di Ruvo, provenienti all’epoca dal Marocco. Ai cittadini timorosi per il loro arrivo scosse le coscienze: ‘sono persone – disse – papà che hanno lasciato i loro figli nelle varie città che hanno abbandonato e ora qui trovano anche discriminazione’. Un ragazzo marocchino si rivolse a lui spiegando di essere fortunato perché dormiva in un garage tra il trattore e le zappe della persona per cui lavorava, ma c’erano sei sette suoi amici che vivevano invece in un casolare abbandonato, con i piedi uno sull’altro per riscaldarsi nelle nottate d’inverno. Lui si adoperò per trovare loro una sistemazione degna, in due locali, attrezzati con brande e tutto il necessario per vivere. A ciò si aggiunsero i momenti di convivialità e condivisione con tutti, con pranzi cucinati e consumati assieme”.
Quanto manca la sua figura, la sua persona, in queste ore di guerra in Siria e Palestina, e in questi mesi in cui in campagna elettorale alcuni partiti hanno soffiato sul fuoco del razzismo?
“Tanto. Ci manca la sua capacità di leggere e capire quanto sta accadendo nel mondo. Non a caso diede l’esempio con quella marcia verso Sarajevo accompagnato ormai dalle flebo. Non poteva tollerare che si calpestassero i diritti umani, in qualunque latitudine del mondo. Per questo andò e ascoltò quanti lasciarono Molfetta e il territorio della diocesi per emigrare in America e in Africa”.
Cosa l’ha colpita in particolare della sua persona?
“L’attenzione verso l’altro, sintomo di un’intelligenza straordinaria, superiore alla media. Gli bastava conoscerti, scambiare due chiacchiere, capire che persona eri, per ricordarsi il tuo nome e il tuo viso. Credo fosse una capacità appresa da educatore in seminario. Lui si faceva presentare i cresimandi prima della cerimonia e durante la messa li chiamava uno per uno col loro nome. Tutte le persone che l’hanno conosciuto hanno da raccontare qualcosa di sé, un inedito con don Tonino, che era formidabile nel rendere speciale l’incontro con ognuno”.
Come lo si può celebrare al meglio in questa occasione?
“Bisogna fare in modo che sia un memoriale e non un esercizio della memoria”
Era anche poeta, don Tonino Bello, ed era anche uomo che amava rimanere tra i giovani. In che modo?
“Cantando e suonando la fisarmonica. Era la sua passione. Mi diceva di prendere la chitarra per suonare con i ragazzi”.
Qual era la sua canzone preferita?
“Ce n’erano diverse, ma su tutte L’Isola che non c’è di Edoardo Bennato”.
Un’isola felice che don Tonino voleva fosse l’intero mondo.