Il primo trimestre del 2017, tra i dati socio economici più rilevanti, denota l’ulteriore aumento dell’emigrazione giovanile dall’Italia, in costante crescita, dopo il boom degli anni 2013/2016.
Un dato particolarmente significativo anche perché la Puglia è tra le prime regioni ad alimentare questo flusso, e con una età media più bassa rispetto al resto d’Italia. I dati tengono conto dell’AIRE, il registro degli italiani residenti all’estero, ma anche di flussi migratori temporanei, e per motivi di studio. Importante scriverlo, perché non tutti coloro che si sono spostati definitivamente a vivere e lavorare all’estero, hanno certificato la residenza fuori dall’Italia, restando formalmente abitanti della “Penisola”, quindi i numeri sono effettivamente ancora maggiori.
Perché è un dato significativo? Perché di fatto una fetta importante di una intera generazione si sta spostando fuori dal Belpaese. Numeri che solitamente sono associati a periodi storici caratterizzati da guerre, carestie, rivoluzioni sociali; insomma, scenari di altre epoche.
La stessa nazione italiana è stata patria di emigranti per diversi decenni, per esempio la fine del 1800 e nei periodi post bellici del ‘900. Ma oggi l’Italia è il secondo paese più industrializzato d’Europa e, seppur timidamente, in ripresa rispetto alla crisi di inizio secolo (solo il settore delle rinnovabili ha creato oltre 200.000 posti di lavoro nel 2016).
Cosa sta succedendo allora? Perché migliaia di giovani pugliesi, spesso ad alta scolarizzazione e di provenienza sociale assolutamente integrata nel territorio, lasciano ogni mese questa terra?
Certo, la crisi occupazionale tra i giovani, fenomeno tipicamente italiano, spinge alla ricerca di opportunità lavorative al di fuori del proprio territorio. Ecco perché ad emigrare sono soprattutto persone con titoli di studi e specializzazioni elevate. Un esempio chiarificatore: sono centinaia i medici italiani che oggi lavorano in Inghilterra e Germania e sono partiti negli ultimi due tre anni.
La dinamica però va vista in un’ottica che non può essere solo di risposta alla crisi, ma anche di ricchezza di opportunità.
Mi spiego meglio: da sempre il modello base dell’economia porta il “centro” (inteso come una grande città, una capitale, la sede del potere politico ed economico) ad attrarre, fino a svuotare, la “periferia”. La concentrazione di centri produttivi e amministrativi, di risorse, di fasce di popolazione con capacità di spesa, attira di conseguenza la manodopera, la forza lavorativa, le eccellenze, per una semplice dinamica di domanda-offerta.
Quello che sta cambiando, forse, non è tanto il modello economico di riferimento, ma il mondo globalizzato intorno a noi.
I tassi di occupazione sono gli stessi (se non migliori) che spingevano i meridionali, negli anni ’70, a cercare lavoro in quelli che erano i centri di allora. Ci si spostava dalla periferia (le campagne, visto che fino agli anni ‘50 eravamo un popolo di contadini) ai centri (le zone industriali di Torino, Milano, poi Bari).
Oggi, con la globalizzazione, i voli low cost, l’inglese e la cultura europea entrata nelle scuole, le multinazionali che aggregano e standardizzano la produzione a livello mondiale, quello che è cambiato, è la SCALA del centro e della periferia.
Ci si sposta dalla periferia (aree provinciali e regionali fuori dai centri di aggregazione) ai centri, che, per quanto scritto sopra, oggi sono le grandi metropoli europee e mondiali: Milano, ma anche Barcellona o Dublino: ormai queste città condividono moneta, modelli culturali e produttivi e tempi di spostamento che rendono il salto non molto diverso da quello tra la campagna pugliese e la Fiat di Torino nel 1960. Ma il discorso non è molto dissimile, e la tendenza è quella, anche per la Silicon Valley, la city di Londra, e così via.
L’altro grande cambiamento, il fatto che si spostino i laureati, o coloro che hanno investito nella formazione anni e risorse, non è un dato assolutamente negativo. Semplicemente, il fatto che oggi, per restare nel modello citato, la periferia (ovvero noi) offre forza lavoro molto più qualificata e formata, rappresenta un salto nella qualità dei ruoli che si possono andare a ricoprire, ma anche il frutto di una evoluzione dell’economia mondiale, sempre più trainata dai servizi (si pensi alla finanza, al turismo, all’informatica) con industria ed agricoltura sempre più meccanizzate.
Insomma, il fatto che la Puglia sia tornata ad essere terra di emigrazione come negli anni delle crisi più profonde, non può essere solo letto come un dato negativo: è una risposta ad un mondo che cambia e che offre opportunità nuove e migliori, colte da alcune fasce sociali prima di altre; e come tutte le opportunità prevedono anche un prezzo da pagare in termini di cambio di opportunità.
Oggi, semplicemente, la scala su cui parametrarsi è enormemente superiore rispetto al passato, tanto in termini geografici, quanto economico-sociali. Certo, l’Italia deve crescere, e tanto, in termini di produttività e miglioramento del mercato del lavoro (a cominciare dalla lotta al sommerso e la facilitazione all’avvio di impresa), ma essere (ri)diventati “periferia” di un mondo (e di un centro) più grande, più variegato, magari più lontano e più ricco di opportunità, alla lunga può essere un vantaggio.