“Nel Centro di Salute Mentale del quartiere Libertà ci sono state diverse aggressioni, anche minacce con taglierini e pietre, ma alle nostre numerose richieste di maggior sicurezza il più delle volte abbiamo ottenuto come risposta il silenzio”. A parlare è Mauro Squeo, psichiatra barese, attualmente in servizio nel Csm del San Paolo ma nel settembre 2013, quando fu uccisa a coltellate la dottoressa Paola Labriola, era responsabile del Csm dove lei lavorava.
Squeo è stato sentito oggi in Tribunale come testimone nel processo in corso nei confronti di sei funzionari della Asl di Bari, tra i quali l’ex direttore generale Domenico Colasanto, ritenuti responsabili di non aver garantito la sicurezza nella struttura. Agli imputati il pm Baldo Pisani contesta i reati di morte come conseguenza di altro reato, omissione di atti d’ufficio e induzione indebita a dare o promettere utilità.
“Il Csm di via Tenente Casale – ha spiegato Squeo – raccoglieva un’utenza di quasi mille persone con bisogni assistenziali di vario genere, da richieste sussidi a richieste di intercessione per case popolari o benefici previdenziali, oltre a questioni sanitarie. Il Csm era quindi il terminale di una serie di richieste alle quali non era in grado di dare risposte adeguate. In questi anni ho assistito personalmente a diversi episodi di aggressione e violenza sia fisica che verbale e io stesso sono oggetto di diverse aggressioni, più volte segnalate al nostro direttore di dipartimento e alla direzione generale della Asl, ma rimaste inascoltate”.
Chiunque, insomma, poteva entrare nel Csm. Come quel 4 settembre 2013 in cui Paola Labriola fu uccisa con 70 coltellate dal 40enne Vincenzo Poliseno, sul paziente, già condannato in appello a 30 anni di carcere per il delitto (il processo in Cassazione è fissato per il prossimo 20 ottobre).