Non è insolito che alcune notizie “negative” per l’opinione pubblica siano fatte circolare in periodi di ferie e vacanze (tipico esempio, l’aumento delle imposte) perché la testa è, appunto, allo svago e alla vacanza. Quest’anno per esempio, è stato rivelato un rapporto sulle pensioni, che riguarda soprattutto i più giovani e che è allarmante.
In estrema sintesi, è emerso l’ennesimo probabile buco nelle curve di proiezione per i pagamenti delle pensioni. In realtà si è parlato di questo dato solo a margine di due dibattiti più “popolari” come il taglio dei vitalizi per i parlamentari, e i frequenti faccia a faccia circa la necessità di incrementare la presenza di lavoratori immigrati per aumentare il gettito contributivo. A mio avviso questi due temi sono stati molto visibili mediaticamente soprattutto perché le forze politiche amano fare campagne elettorali permanenti, per lo più parlando alla pancia della gente, quando invece una buona programmazione pubblica di lungo termine dovrebbe tener conto il meno possibile di onde emotive impulsive. Ciò detto, vediamo però il dato, come da comunicazione della ragioneria dello stato. E capiamo perché da un punto di vista economico finanziario è drammatico:
Il livello del rapporto fra spesa pensionistica e Pil risulta «significativamente superiore, per l’intero periodo di previsione» (fino al 2070), «con una differenza massima di 0,8 punti percentuali attorno al 2040», quando raggiungerebbe il 16,3%, formando una nuova gobba. Così, appunto, la Ragioneria generale dello Stato, nell’ultimo rapporto sul sistema pensionistico. Anche le ipotesi a livello europeo indicano un «forte incremento del rapporto», che, «in termini di sostenibilità delle finanze» vanificherebbe «buona parte degli effetti del processo di riforma».
Ancora, la Ragioneria generale dello Stato spiega che «sulla base delle ipotesi demografiche e macroeconomiche» aggiornate «il tasso di crescita del Pil reale si attesta intorno ad un valore medio-annuo dell’1,2% nell’intero periodo di previsione», che copre fino al 2070. La versione precedente del dossier della Ragioneria segnava invece una crescita media annua dell’1,5%.
Tradotto in numeri concreti, se già oggi i giovani che entrano nel mondo del lavoro, e in genere tutti coloro entrati dalla fine degli anni ’90, appaiono destinati a pensioni dimezzate rispetto agli stipendi e alle entrate dichiarate, il rischio che questa proiezione diventi anche peggiore, è molto concreto.
Ma come è possibile un tale squilibrio nei conti? Come è noto, il problema nasce per l’impostazione “retributiva” del sistema classico previdenziale italiano. Cosa significa? Quando sono state introdotte le pensioni pubbliche, in Italia, per ogni persona non più in grado di lavorare, c’erano 4-5 lavoratori attivi. Un rapporto che permetteva di “pagare” le pensioni, con i contributi dei lavoratori attivi. Un “patto generazionale”, che poi sarebbe stato ricompensato, facendo pagare le pensioni di questi lavoratori alle nuove generazioni entrate nel mercato del lavoro man mano che i suddetti, ne uscivano.
Tutto bene? Mica tanto. Dal 1979/80 il trend di crescita degli italiani si è invertito: poche nascite, e poi dagli anni ’90 addirittura ci sono stati anni con più morti che nati, e bilancia pareggiata solo dall’immigrazione. Contemporaneamente, come se non bastasse, i progressi clamorosi della medicina e dello stile di vita, hanno permesso un aumento delle aspettative di sopravvivenza generazione dopo generazione. Tradotto nei crudi numeri della ragioneria: si è dovuto pagare (e si pagano tuttora) pensioni a persone che hanno smesso di lavorare a 55/60 anni, e si pensava (medie alla mano) vivessero fino a 75/80 anni, arrivando invece mediamente a 80/85. Quindi quel patto negli anni ’60 permetteva a 5 o 6 lavoratori con piccoli contributi di pagare le pensioni di un sessantenne che viveva mediamente altri 10 anni. Oggi, con lo stesso criterio un paio di lavoratori dovrebbero pagare la pensione per quasi trent’anni ad un non occupato… qualcosa non torna!
Come se non bastasse, in anni di crisi economiche ed occupazionali, l’Inps (istituto che ha sempre gestito il calcolo e l’erogazione delle pensioni) è stato investito di altre uscite impreviste: dalle pensioni di invalidità, ad alcune forme di ammortizzatori sociali, ecc.
Alla fine, i proverbiali nodi sono arrivati al pettine. I debiti insostenibili di questi squilibri finanziari sono stati esplicitamente affrontati in tutte le trattative europee sulle sistemazioni dei conti italiani. E via con le mille riforme del settore (cito tra tutte le note riforme Amato nel biennio 1992/93, e Fornero, datata 2012, ma anche quella Maroni del 2006 sui TFR). Si è passati gradualmente al sistema contributivo, ovvero ad una corrispondenza sempre più univoca tra quanto si versa e quanto si ha diritto ad incassare.
Queste riforme da sole non bastano, perché le curve demografiche variano come varia la società, e i calcoli fatti anni fa sono smentiti dai dati aggiornati (in particolare si vive sempre più a lungo). Ma anche perché si è collegata la rivalutazione delle pensioni alla crescita di ricchezza nazionale, che si è contratta in questo decennio. Infine i contratti di lavoro flessibili e una diffusa presenza di “nero” nelle retribuzioni e nei redditi personali sottrae ulteriori risorse al sistema.
Alla luce di tutto ciò è abbastanza inconcepibile che non si affronti questo tema come uno dei primi problemi da risolvere per l’economia pubblica italiana. Incentivare e informare i giovani sulla necessità di fondi pensione integrativi privati, sfruttare la possibilità di investimento del TFR, avviare politiche di emersione del nero o comunque di aumento dei versamenti contributivi.
Nel dubbio, il consiglio per ogni lavoratore entrato nel mondo del lavoro dall’inizio degli anni ‘2000, è di costruirsi una piattaforma “personale” di risparmio di lungo termine dedicato alle esigenze previdenziali. Il rischio di dover vivere con mezzo stipendio o lavorare sino ad età improponibili è alto, ma se affrontato con l’alleato tempo (e con consulenti esperti) si può sconfiggere!