Nonostante Cannes e i puristi della sala, il cinema si muove con agio anche in rete. Con la distribuzione online di Netflix, abbiamo assistito a una piccola rivoluzione dello spettatore: da pirata a fruitore legale, con un notevole aumento della qualità dei prodotti. Se, però, fino a non troppo tempo fa Netflix si limitava a distribuire i lungometraggi, andando a incrementare mese dopo mese il suo catalogo, da qualche tempo a questa parte, la piattaforma si è cimentata nella co-produzione di film. Ormai consolidata l’esperienza nel campo delle serie Tv, l’impatto con il lungometraggio è senz’altro un rischio che Netflix ha lungamente meditato, avvalendosi del contributo di alcune grandi personalità del settore. Arriviamo, così, al caso di Okja, una co-produzione anglo-coreana con un cast di primo piano: tra i produttori esecutivi, troviamo niente di meno di Brad Pitt e Tilda Swinton, che interpreta anche uno dei ruoli principali della storia.
La sceneggiatura e la regia sono invece affidate al coreano Bong John-Ho, nel 2011 presidente della giuria al Festival di Cannes (ironia del destino) e già autore di “The Host” del 2006.
La storia ruota attorno alla straordinaria amicizia tra Mija (Ahn Seo-hyun) e Okja, un’enorme suina transgenica allevata a terra. La mole eccezionale dell’animale, però, non è semplicemente frutto del grande amore e dei paesaggi incontaminati in cui Okja è cresciuta, ma di un Dna studiato a tavolino per risolvere l’annoso problema della fame del mondo. L’idillio transpecista dovrà necessariamente scontrarsi con il crudele destino della dolce maialina, schiava inconsapevole delle multinazionali agroalimentari. A ricoprire il ruolo della boss della Mirando (l’azienda che ha commissionato l’allevamento di Okja e dei suoi simili), Tilda Swinton, dall’aspetto particolarmente cartoonesco e inquietante, accompagnata da Giancarlo Esposito e dalla sua solita aria gelida e sottilmente minacciosa.
Al di là dell’indiscussa riuscita del racconto e della descrizione del raporto tra le due protagoniste, Okja è un film ricco di spunti di riflessione che emergono con forza crescente, fino ad arrivare a una denuncia piuttosto palese della crudeltà degli allevamenti intensivi e della sperimentazione sugli animali. Un messaggio, questo, veicolato in maniera piuttosto chiara dell’autore e regista coreano che polarizza il conflitto tra bene e male collocandolo nell’antitesi tra natura e metropoli, tra economia di sussistenza e capitalismo, tra occidente e oriente, con un richiamo non troppo velato all’etica vegana. Okja e Mija diventano l’ultimo baluardo di purezza, in mondo in cui l’Uomo – anche colui che è animato apparentemente da buone intenzioni – è pronto a tutto pur di compiacere il proprio stomaco, il proprio portafogli e il proprio ego.
La complessità di fondo, così come le magnifiche ambientazioni e l’aria surreale e poetica di tutta la narrazione (e della protagonista), ricordano le atmosfere di Miyazaki, senza – tuttavia – il tocco unico del maestro. Se le performance attoriali si piazzano tutte su un livello medio-alto, a cominciare dall’interpretazione sopra le righe di Jake Gyllenhaal (qui nei panni del veterinario Johnny Wilcox), la regia e il montaggio (e la durata) tendono a mettere alla prova la concentrazione dello spettatore, una volta esaurito l’entusiasmo iniziale per la grande maialina.
Abbiamo a che fare, tuttavia, con un’opera scritta e girata con uno scopo, una storia che parte dal “cosa”, per poi arrivare al “come”, trovando modi originali e interessanti per esprimersi e riuscendo a comunicare su più livelli: l’azione, l’ignoto e l’impossibile da una parte e un duro colpo al nostro sistema dall’altra, in grado aprirci gli occhi – almeno per qualche minuto – sulla sacralità della vita di tutti gli abitanti della Terra e sull’ingiustizia profonda dell’antropocentrismo.