Lo sgombero del cosiddetto “Ghetto dei bulgari” alle porte di Foggia avvenuto nella giornata di giovedì scorso pone fine a l’ennesima vergogna del territorio foggiano. Un ghetto che ospitava ogni anno tra quattrocento e seicento persone a seconda dei periodi, molti dei quali venivano impiegati in Capitanata come operai agricoli per la raccolta del pomodoro ed in agricoltura in genere.
Dopo lo sgombero del ghetto di “Rignano”, quello dei bulgari è il secondo sgombero in poco meno di un anno: un fatto positivo che evidenzia una maggiore attenzione delle istituzioni al fenomeno.
Il fenomeno dei ghetti nella provincia di Foggia è una realtà drammatica, agglomerati abitativi auto-costruiti con materiale di fortuna di medio e grande dimensione dove i lavoratori e le loro famigliedi extracomunitari e neo-comunitari vivono in condizioni igienico-sanitarie al limite della sopravvivenza. Sono oramai in ogni angolo della provincia, una decina quelli più grandi che arrivano a contare anche duemila presenze, ma i villaggi spontanei che nascono in casolari abbandonati dove si aggregano gruppi formati mediamente da venti famiglie, determinano sul territorio una presenza di migliaia di soggetti. Anche qui le condizioni igieniche sono terribili ed ai limiti di ogni condizione igienico-sanitaria sopportabile.
“Lo sgombero del “Ghetto dei Bulgari” era azione necessaria che anche la Flai-Cgil chiedeva da tempo. Si tratta di uno dei ghetti dalle condizioni sanitarie più gravi e dove erano presenti circa un centinaio di bambini e ciò, sicuramente, non era più tollerabile”- dichiarano congiuntamente Antonio Gagliardi, segretario generale della Flai-Cgil Puglia e Daniele Iacovelli, segretario generale Flai-Cgil di Foggia.
“Certo è che le famiglie si sono spostate nei casolari abbandonati ed alcuni in altri ghetti della Capitanata, ma il vero problema continua ad esistere e non è secondario: gli sgomberi vanno sostenuti individuando situazioni idonee che realizzino la piena accoglienza degna di questo nome; azioni concrete da parte delle Istituzioni, a cominciare dalla Regione Puglia, in grado di attivare politiche per il trasporto dedicato con modalità specifiche ai lavoratori italiani e stranieri; politiche per l’intermediazione regolare della manodopera da affidare a soggetti abilitati in grado di creare il nodo territoriale previsto dalla Rete del lavoro agricolo di qualità, punto cruciale attraverso il quale favorire l’incontro tra domanda e offerta. Dunque, accoglienza, intermediazione, trasporto sono gli elementi da sottrarre a chi illecitamente sfrutta ed egemonizza il lavoro in agricoltura come i caporali e gli imprenditori che, a loro volta, ne fanno uso” – continuano Gagliardi e Iacovelli.
“Da due settimane è partita la nuova iniziativa della Flai-Cgil di sindacato di strada denominato ‘Ancora in Campo’ e nelle campagne del foggiano i bulgari che raccolgono i pomodori sono moltissimi, la domanda che ci poniamo è: possibile che i cittadini bulgari che lavorano in agricoltura dalla metà di luglio sino alla metà di settembre, solo considerando la raccolta del pomodoro, lo fanno per cinque o sei giorni? È plausibile una cosa del genere? E’ possibile che solo il sindacato si ponga questa domanda?” – insistono Gagliardi e Iacovelli, citando i dati medi che emergono dagli elenchi anagrafici dell’Inps.
Nel solo comune di Lesina, dei 199 bulgari presenti negli elenchi anagrafici, ben 122 hanno una media di 4 giornate di lavoro annui, un dato scandaloso oltre che evidente, eppure un fenomeno ciclico che si ripete ogni anni.
“Ciò chiama in causa in modo inequivocabile l’attività di controllo che, nonostante i primi risultati concreti legati alla Legge 199 del 2016, risulta ancora poco calibrata e sicuramente insufficiente. Anche se questi cittadini bulgari non vivono più nei ghetti, saranno comunque utilizzati come manodopera in agricoltura nelle campagne nel periodo del pomodoro e non solo, sottopagati, sfruttati, con salari che non superano mai trenta Euro giornaliere, per una media di nove ore di lavoro almeno, a fronte di cinquantatre Euro lorde giornaliere previste per sei ore e trenta. Molti di essi saranno strumento per la compravendita di giornate agricole, dalle stesse aziende che li utilizzano nelle grandi campagne di raccolta. I dati INPS per il 2016 evidenziano come dei 3.880 lavoratori bulgari presenti negli elenchi anagrafici, ben 2.084 hanno lavorato in agricoltura per non più di dieci giorni in un anno. Un dato che da solo commenta quale sia l’atteggiamento di numerosi imprenditori agricoli” – concludono i due sindacalisti della Flai-Cgil.