Nelle sale ormai da qualche settimana, troviamo “Get out”, presentato dalla distribuzione come thriller psicologico, teso e raffinato. Applaudito dalla critica come un prodotto riuscito e appassionante, il film di Jordan Peele gioca con la questione razziale inserendola in un contesto vagamente horror, in cui la storica violenza dei bianchi verso i neri d’America sfocia in una trama surreale.
Il film si apre con un rapimento di un ragazzo nero che viene tramortito e caricato di peso in una macchina di lusso: questa figura sarà l’unico elemento connota il film come un thriller in cui scene apparentemente montate a casaccio trovano una – seppur debole – funzione. La camera, però, si sposta subito su Chris (Daniel Kaluuya) e Rose (Allison Williams), una coppia nel pieno dell’idillio amoroso. Lui nero, lei bianca, si confrontano col giudizio del mondo esterno e con il ritardo di qualche decennio degli sceneggiatori (a cui sarebbe opportuno ricordare che Indovina chi viene a cena? uscì nel 1967) che ritornano imperterriti sul tema della coppia interrazziale. Come se non bastasse – e questo è l’elemento più ansiogeno del film – lei dopo appena quattro (o cinque?) mesi di relazione decide di presentare il suo fidanzato alla famiglia: per questo i due si mettono in macchina e si dirigono verso un sobborgo signorile di una non meglio nota città americana, dove una comunità di bianchi – che più bianchi non si può – è pronta ad accoglierli.
Chris nota sia dal primo momento il clima creepy della famiglia della sua compagna: il padre desideroso di piacerhli, pur nascondendo una sottile tensione razzista, la madrenpsicologa che applica l’ipnosi come fosse magia nera e un fratello sboccato e ubriacone pronto ad animare la conversazione con aneddoti su palpate e festini tra adolescenti. Insieme a Rose, la figlia prediletta e perfetta, questi esponenti dell’upper class americana costituiscono un ibrido tra il cliché della famiglia di psicopatici dalle pessime intenzioni (alla Non aprite quella porta, per intenderci) e quello del quadretto modello alla Stuart Little, qualche anno dopo l’adozione del topo.
Quello che Chris nota, però, è che – per quanto i suoi suoceri possano essere strani – le presenze davvero inquietanti sono quelle dei domestici della famiglia: non a caso, due neri, un giardiniere e una governante. Chris si rende conto che strani fenomeni si verificano attorno alla casa dove è ospite e alla comunità che lo ha accolto. D’altra parte, il suo migliore amico – un erotomane simpaticone – con cui è in costante contatto telefonico, inizia a mandargli messaggi allarmanti: si dice in giro che i bianchi ricchi trasformino i neri in “schiavi del sesso” e – per quanto possa sembrare assurdo – questa è davvero la chiave di lettura del film. Ma Chris, ovviamente, è scettico e continua a sbaciucchiarsi la principessa wasp Rose, convinto dal profondo e inespugnabile legame amoroso costruito in ben quattro (o cinque) mesi di relazione.
Bene, questo è quello che succede durante la prima ora di film, in cui, a un ritmo piuttosto lento (forse si intende questo con “horror psicologico”?), spuntano di tanto in tanto scene pseudoansiogene in cui il protagonista è sospeso in uno spazio indefinito, alle prese con i propri incubi e sensi di colpa che – fino alla fine – non hanno alcun legame con lo svolgimento dei fatti. Abbiamo un’impennata verso l’ultima mezzora scarsa di film, quando il Chris decide di averne avuto abbastanza dei dispetti da psicopatici dei suoceri e dei loro amici e chiede alla fidanzata di rientrare in città. A quel punto, il colpo di scena: lei è stata con un sacco di ragazzi neri (e anche una ragazza) prima di lui! Come lo si scopre? Chris trova una scatola piena di fotografie in cui Rose è ritratta con le sue conquiste. Davvero ben fatto.
Panico, espressioni alla “ma con chi diavolo sono stato negli ultimi quattro o cinque mesi?”, sospetto e – finalmente – Chris manda a quel paese tutti quei bianchi. Attenzione spoiler: quella comunità di signori e signore di ottima estrazione sociale usa i giovani e possenti corpi dei neri per impiantare la loro memoria e guadagnarsi così una specie di immortalità potenziata da un corpo favoloso. Il tutto – attenzione – sottolineando la totale assenza di una qualsivoglia componente razzista. Lui si libera, risveglia un suo collega lobotomizzato con il flash della macchina fotografica (cosa?), ammazza quella stronza dell’ex fidanzata e viene raccattato dall’amico erotomane (che però aveva capito tutto sin dall’inizio). Il vero finale a sorpresa? Che un nero che ha sterminato una famiglia di bianchi a mani nude, tornerà alla sua vita di sempre e non sarà condannato a quindici ergastoli e a una morte certa sulla sedia elettrica.
Get out è talmente vittima dei cliché del genere e dei loop culturali dell’America contemporanea (Rose a un certo punto pronuncia la frase: “Mio padre non è razzista, pensa: voterebbe di nuovo Obama!”), da inciampare più e più volte in un sentiero lastricato di buone intenzioni. L’interpretazione e le scelte registiche passano in secondo piano rispetto alla vacuità della storia raccontata, mandando a quel paese gli sforzi attoriali del suo – pur discreto – protagonista. Non ci siamo: non è un horror, non è psicologico, non è disturbante, non provoca nessuna forte emozione se non il fastidio. È semplicemente un esempio di come si faccia un buona promozione di un film, perché – effettivamente – è stato ben venduto come unico nel suo genere. Sarebbe bastato un pizzico di sensibilità in più, una buona dose di ipocrisia in meno, far quadrare la trama e non spingere l’acceleratore a tutti i costi sulla rivalsa razziale che tanto suona di strategia commerciale, offendendo decenni di lotta politica.
Post scriptum: il regista è afroamericano.