Negli ultimi anni si è assistito più volte a salvataggi di aziende private a partecipazione pubblica, o addirittura, sostanzialmente private, da parte dello Stato. Operazioni che fanno infuriare l’opinione pubblica, perché in sostanza sono i cittadini contribuenti, con le loro tasse e imposte versate all’erario, a finanziarie queste operazioni: il ministero, con i soldi pubblici, ripiana debiti o acquista quote di proprietà di aziende dai bilanci fallimentari. Perché avviene tutto ciò e non si riesce a invertire la tendenza?
C’è una considerazione che riguarda la storia dell’economia italiana da porre subito come presupposto: il “capitalismo” italiano è sempre stato caratterizzato da aziende di natura familiare. Si pensi alla prima grande industria italiana, la Fiat, tuttora in mano alla stessa famiglia. Ma anche Ferrero e le miriadi di aziende che hanno costituito la spina dorsale del boom economico e dell’industrializzazione. A differenza di altre nazioni, come Olanda, Usa, Germania o Inghilterra, dove le grandi aziende nascevano come public company (cioè con la proprietà diffusa tra il pubblico, anche attraverso l’azionariato e il ricorso a manager esterni e partecipazioni di gruppi finanziari). Questo è stato un punto di forza del sistema economico italiano, che oggi ha centinaia di piccole e medie aziende (e qualche decina di grandi e grandissime) in mano a famiglie, con un più facile controllo e dinamicità. C’è però il contraltare: molte famiglie e aziende hanno preferito questa politica anche per far si che il capitale di investimento restasse in mano loro, senza ricorsi a banche, gruppi finanziari e risparmio privato, come avviene per esempio negli Usa. Allora le aziende, che per loro natura hanno bisogno di grandi dimensioni in Italia, a differenza degli altri paesi occidentali, sono nate come aziende di stato, con soci fondatori rappresentati da ministeri, regioni o fondazioni territoriali legate alla politica e ai partiti.
Le grandi banche italiane, come la compagnia aerea di bandiera, la Rai, le aziende legate allo sfruttamento delle materie prime ecc. Una caratteristica tutta italiana che ha permesso nel dopoguerra una industrializzazione miracolosa, ma anche un bel problema: non è un segreto che dietro le scelte di queste aziende spesso ci fossero motivazioni di natura politica (assunzioni legate a consenso politico, manager scelti più per fedeltà che per competenze, cambi improvvisi di strategia a seconda dei risultati elettorali).
Ma soprattutto il dato che più ha creato storture: il capo di una azienda familiare sa che deve lasciare l’azienda, spesso frutto di una vita di lavoro e sacrifici, ai propri discendenti, e opera rispondendo a criteri di lungo periodo e stabilità dell’impresa nel tempo. Invece quando il capo dell’azienda sa che lascerà dopo 3/5 anni, risponde solo a coloro che lo hanno posto a capo dell’azienda, puntando a risultati di breve.
E questo è il caso proprio di Alitalia, dove in passato ci sono stati manager che hanno, nei loro tre o poco più anni di mandato, risposto alle richieste del governo di turno, lasciando poi buchi di bilancio che non hanno minimamente intaccato le loro laute retribuzioni. Lo stesso è avvenuto per alcune grandi banche e altri gruppi industriali locali. Il cerino in mano rimane al socio che spesso è un ente pubblico e che è il vero responsabile di aver lasciato che i manager si occupassero di questioni di politica spiccia invece che di operatività di ampio respiro. Tutto ciò perché, come diceva Napoleone, il politico si occupa di raccogliere consensi per le prossime elezioni, mentre come abbiamo visto, un buon imprenditore si preoccupa di lasciare l’azienda che ha fondato o gestito alle future generazioni. Ma anche perché l’utile dell’azienda privata resta in tasca all’imprenditore, l’utile dell’azienda pubblica sostanzialmente non ha ragione d’essere in questo quadro di impulso all’economia nazionale.
A queste peculiarità vanno aggiunte due fenomeni in più. La prima è il cosiddetto “ricatto occupazionale” : le grandi aziende pubbliche spesso negli anni sono state riempite di personale eccessivo rispetto a quello necessario per un equilibrio produttivo, ma i costi che lo stato subirebbe in termini sociali da improvvisi licenziamenti di massa sarebbe anche peggiore dei costi di salvataggio. In secondo luogo, lo Stato non può privarsi di aziende in settori strategici. Un paese come l’Italia non può nel 2017 non avere, per esempio, una compagnia aerea internazionale o imprese nei settori della cantieristica più avanzata o uscire completamente dal settore della produzione dell’acciaio (vedi caso Ilva). Quindi alcuni salvataggi diventano necessari, seppur costosissimi, perché nel lungo termine l’uscita da settori strategici costerebbe di più in termini di perdita di business.
Con l’entrata nella comunità europea, i soldi per i salvataggi di Stato sono diventati oggetto di “autorizzazioni preventive” (per gli accordi sui vincoli di bilancio, ma anche perché la nostra moneta Euro, non la stampiamo noi, ma la Banca Centrale europea dove l’ultima parola di fatto è sempre francese e tedesca). Le questioni sono diventate sempre più oggetto di pubblico dibattito (si pensi anche ai casi di “bail in” cioè partecipazione dei correntisti e obbligazionisti ai salvataggi di alcune banche).
Quindi a pagare alla fine è il cittadino, perché è il cittadino (attraverso enti e fondazioni pubbliche) il proprietario ultimo, in una visione dell’economia di stampo “keynesiano” cioè dello stato come attore principale dello sviluppo economico (che ha dato i suoi frutti negli anni ’50 e ’60).
Senonché i rappresentanti del cittadino non sempre hanno come priorità la continuità aziendale come se fosse una proprietà personale. A questa stortura si potrà porre rimedio, solo con un graduale disimpegno dall’economia di stato, lasciando che sia il mercato ad autoregolarsi e facendo svolgere al Pubblico il ruolo di arbitro e datore di regole. Ovviamente non è un processo semplice, anche perché in alcuni settori la presenza pubblica è materia che garantisce prestigio e permette politiche sociali ed occupazionali che si possono modificare solo con processi lenti e partecipati dal basso. Il processo è già cominciato e chissà che Alitalia non sia uno degli ultimi casi del genere.