Los Angeles, 1973. Al “The cellar” ogni sera si esibiscono i migliori stand up comedians della città. Un microfono, un palco e le proprie storie da raccontare al pubblico, che ride, tra una sigaretta e un drink: questa è l’atmosfera che si respira in “I’m dying up there”, nuova serie Showtime il cui pilota è andato in onda in America il 4 giugno. Prodotta da Jim Carrey – uno che di comicità se ne intende – la serie parte con un bel piano sequenza, che presenta l’ambientazione e i personaggi, dando a ciascuno lo spazio di poche battute per presentarsi; conosciamo così la proprietaria e direttrice artistica del “The Cellar”, Goldie (Melissa Leo), i comici Adam (RJ Cyler), Ralph (Stephen Guarino), Bill (Andrew Santino) e Cassie (Ari Graynor), unica donna del gruppo di attori. Sin dalle prime battute, si delinea con nitidezza la rete di rapporti che lega i personaggi, le rivalità, gli affetti, chi ha in mano le redini della situazione e chi deve lottare per guadagnarsi una posizione. Tuttavia, pur nelle loro differenze, hanno tutti lo sguardo puntato sullo schermo del televisore, dove brilla l’unico di loro che ce l’ha davvero fatta: il talentuoso e affascinante Calogero “Clay” Appuzzo (Sebastian Stan). All’apice della sua carriera – però – consapevole di non poter replicare più la performance comica che l’ha consacrato, Clay decide di buttarsi sotto un autobus in corsa. Il tono della storia diventa a questo punto pienamente drammatico.
Seguendo un filone letterario piuttosto nutrito e affascinante, “I’m Dying up there” racconta il dietro le quinte di una nicchia del mondo dello spettacolo e, in particolare, la sottile malinconia tipica della commedia e dei suoi protagonisti. I personaggi, che ogni sera puntano tutto sulla loro capacità di far ridere, sono, in realtà, delle maschere tragiche, dense di inquietudini e contraddizioni. Già nella prima puntata, si distingue il personaggio di Cassie, coinvolta in prima persona nella perdita di Clay. Il dolore per la morte dell’amico e ex amante, porterà la giovane texana a riflettere sul suo ruolo di donna e attrice comica, affrontando con il proprio talento e il proprio corpo la dura lotta per l’emancipazione, di cui il genere femminile è stato protagonista negli anni Settanta.
Con una fotografia calda, sui toni bruni e un accurato lavoro di costumi e scenografie, “I’m dying up there” riprende fedelmente l’estetica del cinema anni di quegli anni, con qualche richiamo stilistico all’Altman di Nashville. Allo stesso modo, si raccontano le speranze e la disillusione di un campionario di artisti che ha scelto di cercare il successo in un’arte che lotta a sua volta per non essere dimenticata, o ignorata. In un periodo in cui – grazie alle piattaforme di streaming (leggi Netflix, ma non solo) – il pubblico internazionale ha imparato ad apprezzare il genere della stand up comedy americana, l’operazione Showtime può sembrare astuta e commerciale: eppure, le premesse illustrate nel pilota promettono un prodotto sensato, scritto con sensibilità e girato con accuratezza.
Come ogni arte, anche la stand up comedy ha diritto alla sua narrazione e questa serie sembra essere in grado di soddisfare degnamente il compito. Non ultimo, il valore aggiunto dato dal cast, ricco di volti più o meno noti della commedia e del piccolo schermo: tra questi notiamo il ruolo di guest star di Alfred Molina, accompagnato da alcuni veri stand up comedians – che ben si prestano anche alla fiction – e da attori di fiction che riescono a difendersi bene anche sul palcoscenico.
La trama, infine, si presenta intrigante, sia per quello che il plot potrebbe rivelare, sia per l’evoluzione interiore dei personaggi, evidentemente tutti alle prese con nodi da risolvere e sogni da realizzare. Se apprezzate la commedia colta americana e siete affascinati dalla comicità graffiante e politicamente scorretta dei comedians, questa potrebbe essere la serie che fa per voi.