Abbiamo aspettato qualche mese, ma ne è valsa la pena. Blackbox è tornato – come promesso – con il secondo capitolo della triologia: Innocenza meccanica, presentato in anteprima al Napoli Comicon 2017 (e presto nelle fumetterie, a disposizione di voi seguaci dello steampunk). Il secondo volume porta la firma dello sceneggiatore Giuseppe Grossi, e del colorista Gaetano Longo, con una sostanziale novità: al posto di Mario Monno, ai disegni, troviamo una mano nuova, quella di Lorenzo Scipioni.
Dopo la premessa di Futura Memoria – qui la recensione – in cui abbiamo fatto la conoscenza dei personaggi e delle regole principali dell’immaginaria città di Ecrònia, Innocenza meccanica entra a gamba tesa nell’azione, mostrandoci la terribile guerra annunciata nel primo capitolo.
Isaac, uno dei protagonisti, ha il ruolo-chiave di membro dell’E.L.I.A., la divisione incaricata di allontanare dalla comunità tutti i membri non più utili o graditi alla società. In quanto veterano della dinamica sociale di Ecrònia, Isaac è anche responsabile della formazione di un suo allievo, il volenteroso Tibbs. Questo passaggio, in cui si evince l’importanza del legame tra maestro e discepolo, è fondamentale per sottolineare l’atrocità della ricorrente guerra – da regolamento, almeno una ogni 25 anni – in cui chi ha vissuto fianco a fianco in un rapporto di scambio e formazione, è costretto a partecipare a un gioco al massacro, per decidere quale generazione avrà la forza di guidare la città.
Parallelamente, assistiamo a un altro momento importante nella società inventata da Giuseppe Grossi, il Giorno della Leggerezza, in cui i bambini di Ecrònia imparano il distacco dagli affetti e dalle abitudini infantili, bruciando i loro giocattoli. In questa giornata, i piccoli sono portati nel Luna Park di Great Gear, regno dell’anziana e ormai cieca Judith. L’ingegnere, madre di Isaac, oltre a essere la creatrice delle complesse strutture meccaniche in cui i bambini possono essere studiati e inquadrati nei loro futuri ruoli, ha ultimato anche l’Ibroma commissionatole nel primo capitolo della serie. Il robot, mezzo macchina e mezzo umano, riserverà – però – una sorpresa crudele, un ulteriore colpo alla sua anziana persona, piegata da tante offese ma non (ancora) del tutto crollata.
In un mondo in cui sembra non esserci più spazio per l’umanità, emergono – per fortuna – frequenti e importanti sprazzi di speranza. Scopriamo presto che la ribellione non è stata del tutto neutralizzata dalle rigide regole a cui i cittadini sono sottoposti: laddove c’è sofferenza, laddove c’è amore, allora c’è una possibilità di restare umani. Come in ogni distopia che si rispetti, Blackbox parte da regole irreali per descrivere situazioni estremamente veritiere: l’esasperazione narrativa della grigia Ecronia non fa altro che districare e rappresentare la rete di metafore che usiamo per denunciare le storture della nostra società.
Decidere il destino (e la classe sociale) delle persone fin da piccole, annullando senza pietà ogni possibilità di scelta e libero arbitrio. Il passaggio tra vecchio e nuovo come una guerra intergenerazionale, senza esclusione di colpi in cui padri e figli si trovano sulle due parti opposte del campo di battaglia. L’emarginazione del “socialmente inutile”, dell’anziano, del malato, del poeta. La clandestinità dei sentimenti e del ricordo, quando diventano un impedimento alla produzione. Stiamo davvero parlando solo di Ecrònia?
Al di là della (forse non volontaria, ma assolutamente efficace) critica al capitalismo, Blackbox si presta a un livello di lettura più estetico, ma non per questo meno importante. Scipioni si inserisce in maniera intelligente nella continuità iniziata da Monno in Futura memoria, chiarendo sin da subito il suo personalissimo stile. Coerente con il tono “sporco” del racconto, Scipioni gioca con la citazione (al lettore lasciamo tutto il divertimento del riconoscere volti e personaggi) e con l’azione, che assume in questo secondo capitolo un’importanza decisiva.
Una saga che vale la pena di seguire, e non per campanilismo (sia il suo autore che la casa editice, Hyppostyle sono di Bari), ma per la sua portata di temi e invenzioni – oltre che per la sempre affascinante veste steampunk, in cui si scrive e disegna ancora troppo poco.