La tenerezza di Gianni Amelio è un film difficile, sotto diversi punti di vista. Presentata in anteprima durante la prima serata di Bif&st, il festival di cinema di Bari, in presenza del regista e del cast, la pellicola è da qualche giorno nella sale italiane.
La storia ruota attorno alla figura di Lorenzo, interpretato da un meraviglioso Renato Carpentieri, un avvocato in pensione reso burbero e schivo da anni di volontaria solitudine. Insieme a lui – eppure così distante – la figlia maggiore, Elena (Giovanna Mezzogiorno) e il figlio minore Giulio (Giuseppe Zeno). Dopo un prologo ambientato nelle aule del tribunale di Napoli, cornice onnipresente e parlante del racconto, in cui Elena si presenta nella sua professione di interprete, la narrazione si sposta sul protagonista e sul suo incontro con la giovane mamma Michela (Micaela Ramazzotti). La donna, un po’ svanita ma tanto dolce, intreccia immediatamente con l’anziano avvocato un dialogo spontaneo, colpendo Lorenzo (e il pubblico) con la sua purezza.
Michela è la nuova vicina di casa di Lorenzo, trapiantata dalle regioni settentrionali insieme alla sua bella famiglia, composta da due vivaci bambini e dal suo caro marito, Fabio (Elio Germano). Lorenzo, che per anni ha ferocemente rimosso la dimensione familiare dalla sua vita, trova nei nuovi vicini uno stimolo ad abbassare le alte mura di cinta che ha tanto tenacemente costruito.
Il cast – così ricco di talenti – è investito dalla responsabilità di dare corpo a personaggi estremamente complessi, legati tra loro da rapporti difficilmente comprensibili. A lungo, per quasi tutta la durata del film, non è chiaro il motivo per cui Lorenzo rifiuti con tanta decisione il rapporto con i figli (soprattutto con la figlia Elena) e, invece, investa il suo tempo e il suo amore con dei perfetti estranei. Si intuisce, grazie ad alcuni dialoghi, una macchia nel passato familiare che impedisce al protagonista una vecchiaia serena, sostenuta dalla sua discendenza. Allo stesso modo è raccontato in punta di piedi il dramma interiore del personaggio di Fabio, vacillante tra un’esistenza mediocre e frequenti exploit di rabbia, che colpiscono lo spettatore come un pugno nello stomaco. Un personaggio così difficile – forse il più interessante di tutto il racconto – è gestito perfettamente da Elio Germano che si conferma, ancora una volta, un attore straordinariamente capace di donare umanità a ogni sua interpretazione. Meno memorabili le protagoniste femminili, Giovanna Mezzogiorno e Micaela Ramazzotti, schiacciate in performance piuttosto prevedibili. Soffrono entrambe del loro ormai lungo curriculum di stereotipi femminili: la donna profonda e sofferente, una, e quella leggera, ma dal passato burrascoso, l’altra.
Al netto delle capacità del cast – complessivamente al di sopra della media – la storia raccontata da Amelio procede in maniera piuttosto discontinua, tra momenti estremamente lenti e lirici e picchi di azione tragica. Certo, la perizia registica è evidente: su tutte, la scena in Galleria Umberto I, dove Fabio scaccia – esasperato – il venditore africano di calzini. Da una situazione banale, Amelio è in grado di far scoppiare una bomba emotiva, in cui c’è sia l’umiliazione di una vita intera del migrante, sia quella dell’italiano, forte della sua posizione ma consapevole della sua pochezza. A questo scambio a due, si aggiunge l’imbarazzo degli astanti, noti e sconosciuti, atterriti da quell’uomo piccolo piccolo che diventa all’improvviso un mostro.
Gianni Amelio punta la sua attenzione su quei casi di paternità castrata dall’ingombrante figura materna, quando il genitore sente di non avere alcuna capacità e possibilità di creare un legame con i propri figli. Entrambi i personaggi maschili, Lorenzo e Fabio, soffrono di questa condizione, riconoscendosi l’uno come lo specchio dell’altro, ma, prima che questa sinergia possa diventare in qualche modo risolutiva, o perlomeno consolatoria, la situazione precipita in una disperazione inaudita. Il duro colpo a cui Amelio sottopone lo spettatore sta proprio in questa negazione categorica di una salvezza, alleviata (per quanto sia possibile) solo nelle ultime battute, dolci-amare e metaforiche.
Tante sono le domande a cui, alla fine del film, si stenta a trovare una risposta: prima fra tutte la psicologia del protagonista e la sua rete di relazioni. Difficile (si perdoni la ripetizione) entrare realmente in empatia con il personaggio, al cui percorso si dedica poco tempo o di poca qualità, non abbastanza – perlomeno – per amarlo (o odiarlo) realmente. Questo è forse il più grande problema del film, parlare di sentimenti, senza dare la possibilità di provare l’emozione principale: la tenerezza.