Tra le novità in sala degli ultimi giorni, c’è un film che ha catturato la nostra attenzione grazie a un nome e un cast stellare: Planetarium. Protagoniste della storia, la diva Natalie Portman e Lily Rose Depp, annunciata dalla stampa internazionale come “la figlia di Johnny Depp”. Insieme a loro, tra i personaggi principali, un volto della cinematografia francese, Emanuel Salinger.
Laura e Kate Barlow (interpretate dalla Portman e dalla Depp) sono due sorelle americane in tour per l’Europa con uno show sui generis, in cui comunicano con gli spiriti dei defunti (una specie di Long Island Medium degli anni Quaranta). Arrivate a Parigi, le due ragazze si imbattono in André Korben (Salinger), un importante produttore che – folgorato dal carisma delle giovani donne – decide di investire sul loro talento e renderle delle star del cinema. Il passaggio dello spiritismo dai palchi alla pellicola, avviene a ridosso della seconda guerra mondiale, quando già spirava da est un vento di intolleranza e di violenza.
Al centro del film, il gioco di rimandi tra cinema e spiritismo. Sin dalle sue origini, infatti, la pellicola (sia quella cinematografica, sia quella fotografica) fu un grande strumento di illusione: proprio la sua natura documentaria, stimolò diversi artisti a truccare l’immagine e a rendere “reali”, presenze immaginarie. In Planetarium, però, l’incontro tra le due arti assume una piega decisamente più concettuale e diventa un reciproco specchiarsi tra due differenti illusioni. Entrambe si presentano come rimedi alla perdita e al rimpianto, attraverso la visualizzazione di ciò che esiste solo nella memoria o nel desiderio. Fino alla fine della storia, l’antica superstizione e il nuovo media avanzano tenendosi per mano, pur destinati – come le sorelle Barlow – a due destini decisamente differenti.
Il terzo protagonista, Korben, è ispirato a un personaggio realmente esistito, l’impresario cinematografico franco-rumeno Bernard Natan – nato Natan Tannenzaft – accusato nel 1935 di frode a danni della Pathé (tutt’ora una delle case di produzioni più importanti d’oltralpe) e morto nel campo di concentramento di Auschwitz dieci anni dopo. La leggenda vuole che Natan sia stato – prima di indossare i panni di produttore – un attore e regista porno, uno dei primi a girare film con scene omoerotiche. Le voci, mai confermate, sono state riprese anche in un frammento del film che – in maniera alquanto corretta – lascia insoluto il mistero.
La regista Rebecca Zlotowski si cimenta con una storia piuttosto particolare, che trae spunto da alcuni fenomeni reali, letti in una chiave estetica e intellettuale. Purtroppo l’operazione, per quanto elegante, risente di una certa freddezza, oltre che da un’irregolarità della narrazione che finisce per lasciare disorientato lo spettatore. Dando per scontati una serie di retroscena, forse persi nella necessità del montaggio, verso la metà del film la trama si scompone, complicandosi in personaggi e dialoghi confusi. Lo spettatore rimane, dunque, distaccato e non ha modo di entrare realmente in contatto con i personaggi, di cui riconosce il carisma, ma non subisce il fascino. Sia la sempre più ossuta e nervosa Natalie Portman, sia la controparte maschile Salinger, eseguono i loro ruoli in maniera composta, forti anche dei loro volti naturalmente espressivi. La piccola Depp, invece, gode di un certo di un magnetismo spettrale e risulta abbastanza convincente nel ruolo della medium/Lolita, dal corpo non ancora sbocciato e dallo sguardo trasognato in chissà quali fantasie proibite. In questo caso, però, una – seppur buona – scelta di cast è insufficiente a mettere su un film appassionante: se non fosse per il tragico (e facile) finale, il coinvolgimento sarebbe quasi del tutto nullo.