C’è tutto un filone figurativo all’interno del cartellonismo che utilizzò gli omini per illustrare il prodotto. Non c’era, infatti, da disegnare solo le eleganti figure femminili o gli azzimati signori per raccontare il nécessaire nel mondo dei consumi.
Al manieristico ritratto della società borghese, reale destinataria di certa propaganda commerciale del tipo cappelli o abiti di gran moda, si contrappose, sin da subito, la necessità di lasciare spazio a rappresentazioni del prodotto più scherzose, leggere, ironiche, che parlassero con immediatezza a tutte quelle cerchie sociali inizialmente escluse dalle trasmissioni pubblicitarie. Le prime grandi produzioni di massa non poterono infatti consentirsi di precludersi consistenti fette di potenziali acquirenti: prodotti come aranciate, dentifrici, saponette, detersivi per il bucato dovevano essere alla portata di tutti. Scherzare sul prodotto dunque fu una necessità dettata dalle prime rudimentali regole di marketing sebbene l’ironia, che con forza prorompeva dai manifesti, diventò, dagli anni ’20 in poi un cliché del cartello tipo.
E’ a questo punto che comparvero gli omini, in quella pubblicità dei prodotti di largo consumo che potevano acquistare tutti, senza alcuna distinzione di classe. Scatole parlanti, lettere sorridenti, nuvole a spasso con gli ombrelli: tutti insieme ad ammiccare al titolo, alla marca, pronti a sottolineare, col dito puntato (altro frequente elemento figurativo), lo slogan. Mi viene spontaneo il parallelo con le tante sperimentazioni verbo-visive che furono tipiche delle Avanguardie e il ruolo centrale che ebbe, con loro, il lettering, che prese subito uno spazio da protagonista all’interno del manifesto. Sperimentazioni a cui, forse, bastò aggiungere il tocco di un sorriso per trasformarle in un efficace cartello pubblicitario.