Considerate il racconto dell’amore a cui siamo abituati, quella retorica del sentimento che vince ogni sfida e si alimenta di ostacoli, per trionfare – infine – più forte e splendido di prima. Considerate, poi, il ritratto dell’eroina romantica – femminile, dolce, alla ricerca del principe azzurro – e della sua dolce metà, mascolina, protettiva e sicura di sé. Ecco, Love di Judd Apatow, Paul Rust e Lesley Arfin non è nulla di tutto questo.
Arrivata alla seconda stagione, la serie con Gillian Jacobs e Paul Rust riprende la narrazione esattamente dove era stata lasciata alla fine della prima. Siamo in un parcheggio, Gus (Rust) è andato a comprare l’ennesimo snack e, postando l’attività sui social, è rintracciato da Mickey (Jacobs), che lo cercava da giorni per affrontare la loro separazione. Qui, la ragazza vomita addosso al suo partner tutte le sue insicurezze, i suoi limiti e le sue dipendenze, in un monologo che si conclude – a sorpresa – con un bacio. Questa è “la fine dell’inizio” – così come recita il titolo della puntata – di una nuova storia d’amore che, dopo la falsa partenza dei primi dieci episodi, sarà raccontata nei successivi dodici.
La seconda stagione di Love, oltre a porsi in una totale continuità narrativa con la prima, conserva con coerenza anche il suo stile brillante e estremamente attuale, grazie a sceneggiatura credibile e coinvolgente. Entrare in empatia con Mickey e Gus è praticamente immediato: le loro vite sono le nostre vite, il loro linguaggio è assolutamente familiare e le loro paranoie, il nostro pane quotidiano. Se da un lato la protagonista femminile incarna lo stereotipo della ragazza interrotta alla ricerca di redenzione, la sua personalità riesce a renderla magnetica, uno di quei personaggi che incontriamo raramente nella nostra vita da spettatori.
Dal legame col padre a quello con le droghe, arrivando al rapporto di amore e odio con i gruppi di aiuto, Mickey è la voce narrante più preziosa della serie, colei che porta la giusta dose di complessità su temi più volte trattati dalla fiction americana con superficialità e moralismo. In Love – e in particolare nel quarto, epico episodio, I funghi – si ha il coraggio di affermare che gli allucinogeni, per quanto siano qualcosa da cui disintossicarsi, sono divertenti, dando un colpo secco all’ipocrita retorica americana della sobrietà. Insieme a Mickey, il fragile Gus, irritante e adorabile come un cucciolo indifeso, che sembra perdere, in questa seconda stagione, tutta la sua indecisione per restare al fianco della sua complicata compagna. A completare il quadro, una serie di riusciti personaggi secondari, su tutti Bertie (Claudia O’Doherty) che raggiunge un punto sfizioso della sua evoluzione e si gioca in maniera ottimale il suo ruolo di spalla.
Love è una serie sulle dipendenze e su come la disintossicazione non sia mai del tutto possibile. Siamo dipendenti dal cibo – notate quanti dialoghi cruciali avvengono in un ristorante o in un negozio di snack – dal sesso, dal lavoro, dalle conferme che arrivano dall’esterno e siamo dipendenti, soprattutto, dall’amore. Nella totale assoluzione morale dei personaggi, però, il pubblico trova nella serie un conforto, che va al di là dell’esito della love story, uno specchio lucido e veritiero in cui ritrovarsi, senza la deformazione del giudizio. Love è liberazione, un’occasione da non perdere.