Il diritto di contare è la trasposizione cinematografica potente, per lo più scanzonata, a tratti lirica e generalmente impegnata di una vicenda realmente accaduta. Il film, è infatti, la storia commovente di una rivoluzione razziale e di genere avvenuta in concomitanza con la guerra fredda, la presidenza di Kennedy e il lancio in orbita della prima navicella spaziale con a bordo un astronauta americano.
La matematica afroamericana Katherine Johnson (Taraji P. Henson), e le sue colleghe Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe), sono state reclutate dalla NASA per fare i calcoli necessari a portare il primo americano in orbita intorno alla Terra. Purtroppo, questa enorme responsabilità non è accompagnata dai dovuti riconoscimenti e le cosiddette ‘calcolatrici di colore’ (colored computers) rimangono vittime di severa e ingiusta discriminazione e segregazione razziale insieme a tutti i cittadini americani di colore dell’epoca.
Nonostante Il diritto di contare sia un racconto corale di donne (e uomini) che hanno fatto la storia, nessun personaggio è esplorato quanto Katherine, l’unica donna afroamericana a far parte del progetto Mercury e colei che ha calcolato matematicamente la traiettoria di atterraggio dell’astronauta John Glenn, di ritorno da un giro spaziale intorno alla Terra. La protagonista, matematica, madre e infine moglie, diventa nel film un esempio compiuto di genio e umanità insieme, tanto da far impallidire Jim Parsons (lo Sheldon Cooper di The Big Bang Theory) che nella pellicola interpreta un ingegnere invidioso del successo della collega di colore.
Il biopic con al centro Katherine è quindi più un racconto sui primati che sulla matematica. Il film parla di progresso scientifico, matematico, ma soprattutto di progresso umano e di una piccola rivoluzione nella società. Il punto della pellicola è che, a volte, le rivoluzioni si fanno, un passo alla volta, un uomo alla volta. In questo caso, una donna alla volta.
I piccoli, grandi impedimenti in cui le donne di colore incorrono nella quotidianità del film – dalle sedute riservate in scuole e bus, ai bagni separati, fino al divieto d’accesso nei luoghi pubblici – non sono solo fronzoli stilistici della pellicola ma rappresentano ma una vera e propria forma di reminiscenza storica. Hidden figures (il titolo originale del film, traducibile ‘numeri nascosti’) fa quindi riferimento a quello stuolo di donne che lavorano ai calcoli per la NASA e che per troppo tempo sono state trascurate e dimenticate nonostante il loro insostituibile contribuito a fare la storia degli USA e dell’umanità con le loro incredibili doti.
Il film vuole (e riesce) a far riflettere sugli stereotipi presenti allora, ma attuali ancora adesso, nella società americana. Non a caso, la questione femminile e razziale sono al centro dell’attenzione ad Hollywood oggi più che mai e le donne del film sono state ricevute da una standing ovation agli Academy. Purtroppo però, nessuna statuetta è stata assegnata a questa splendida pellicola o alle interpreti di queste eroine moderne che, invece, sarebbero state degne, non solo di qualche riconoscimento in più, ma di presenziare nelle pagine di ogni libro di scuola.