Hey Caboto è il primo disco autografo di Nicola Caboto, chitarrista e compositore originario di Perugia. L’album ha visto la luce dopo un lungo periodo di inattività live dello strumentista, durante il quale però ha continuato a scrivere: l’album è stato quindi registrato dal 2015 al 2016. I nove brani spaziano dal rock al blues, al funky-jazz, allo swing, e narrano l’ultimo intenso periodo di vita di Caboto, un periodo caratterizzato da “frequenti traslochi” che lo hanno visto muoversi da La Spezia a Torino. Il disco vede pure la presenza di Enrico Giovagnola (synth).
Com’è la vita di chi trasloca?
Traslocare è fisicamente e mentalmente faticoso, ma ha il valore positivo del cambiamento e dà la possibilità di fare ordine. Non sono certo un “nomade”, e conosco persone che nel solo periodo universitario hanno cambiato casa 10 volte: io invece mi sono trasferito fuori dalla città in cui sono nato solo “da grande” ed è stato spiazzante ma anche molto bello. Credo che senza il cambio di prospettiva dato dall’allontanarsi dalla propria vita di sempre, non avrei mai trovato la chiave per riprendere un progetto musicale. Dopo cinque anni in giro, prima alla Spezia e poi a Torino, al mio ritorno a casa avevo riordinato le idee. Nell’ordinarietà di qualcosa che fanno miliardi di persone, come lo spostarsi per motivi di lavoro o familiari, sentivo di avere fatto un viaggio straordinario perché mi ero ricongiunto con la mia creatività.
È così terribile il Gelo siberiano?
No, il gelo siberiano non è poi così terribile, è un pretesto ironico e una metafora volutamente scontata. Abbiamo tutti i nostri momenti neri, quelli in cui le nubi sembrano accumularsi sulla nostra testa in una personalissima “tempesta perfetta” ma ne possiamo uscire con l’ironia e il giusto distacco. Ricordo, in un giorno in cui ero di umore tetro, un telegiornale che con enfasi da grande scoop annunciava l’arrivo della “solita” ondata di gelo dalla Siberia: in pratica lo scoop consisteva nel fatto che in inverno sarebbe stato freddo! Era un po’ come quei servizi sull’influenza con l’intervista a un medico in camice, che dice di bere tanto e stare a letto. Come quando ci sono 35 gradi all’ombra, e fanno vedere i turisti con i piedi a bagno nelle fontane. Mi fece sorridere, e pensai: “ci manchi solo tu, gelo siberiano. Mettiti in coda che ora ho altri pensieri!” Ho capito che quando abbiamo qualche pensiero di troppo nel momento in cui ci scopriamo a cantarne, scriverne, ironizzarci stiamo già superando la bufera, stiamo vivendo e la vita ha sempre pronto un ombrello.
A chi deve di più Caboto per la sua formazione?
Non sono un divoratore di musica, ascolto molte cose ma mi soffermo solo su una piccola quantità di musicisti che amo moltissimo e conosco profondamente: niente di esotico, i grandissimi nomi che tutti conosciamo. Sono cresciuto musicalmente seguendo due direttrici: da un lato la musica rock e pop in lingua inglese, dai Beatles in avanti, vivendo poi da ragazzino l’esplosione del brit pop (Pulp e Blur soprattutto) e del grunge con i Nirvana e gli altri di Seattle; dall’altro la canzone italiana e soprattutto i cantautori (Fossati, De Gregori, De Andrè, ma anche Daniele Silvestri e tanti altri). Quando ho iniziato a scrivere canzoni in italiano ho ascoltato anche molta opera lirica. Non cose da intenditore, le basi, le opere considerate “popolari” di Puccini e Verdi. Questo mi è servito a capire come la nostra lingua si prestasse all’essere cantata e come la musica enfatizzasse e spiegasse ad un altro livello quello che era espresso nelle parole.
Devo poi dire che chi ascolta le mie canzoni sente delle assonanze di cui non ero neanche del tutto consapevole. Molti ci sentono – facendomi un grande complimento – Ivan Graziani, un autore e chitarrista impareggiabile ma che non nominerei tra gli artisti che ho ascoltato maggiormente. Evidentemente però ho interiorizzato una parte del suo linguaggio o ho una mia personale affinità con lui. Comunque ora faccio sempre un suo pezzo nei live ed è un grande piacere.
Che strumentazione utilizza Caboto?
La chitarra cui sono più affezionato e che ho usato per la maggior parte dei brani nel disco è una Rickenbacker 360. È uno strumento inconfondibile, una chitarra semiacustica un po’ faticosa da suonare ma con un suono unico e bellissima dal punto di vista estetico. Per alcuni brani ho poi usato una Fender Telecaster, per il suo suono cristallino e per la sua precisione e affidabilità. Come amplificatori, pur essendo molto legato alla musica brit e cresciuto nel mito del Vox AC30 e dei grandi Marshall, uso quasi sempre dei valvolari Fender (americani che di più non si può). Di effetti ne uso pochi. Come ogni chitarrista comprerei due nuovi “pedalini” al giorno, ma con gli anni mi sono reso conto che all’atto pratico me ne servono pochissimi: un buon overdrive della T-Rex, tremolo e riverbero della TC Electronic. Poi, tutte le volte che posso cerco di spingere in saturazione le valvole per raggiungere la vera distorsione dell’amplificatore: come è giusto che sia.
Caboto si è preso il suo “tempo per riflettere”?
Penso di sì, ma non è mai abbastanza. Sono una persona irrequieta, vorrei essere capace di vivere di più il momento. Nella canzone “il mio romanzo esistenziale” parlo proprio dello scarso significato che avrebbe una vita vissuta troppo velocemente, puntando a mete irraggiungibili, senza godersi i piccoli traguardi quotidiani e finendo con un bilancio nullo. Bisogna prendersi il proprio “tempo per riflettere”, io ci provo ma so che dovrei fare di meglio.