Il potenziale comunicativo di un manifesto è enorme. Un manifesto finisce per le strade, sui muri dei palazzi, nei negozi, nei grandi magazzini: dappertutto. Una campagna pubblicitaria, per sua natura, è un fatto ossessivo, martellante. Deve essere un pugno nell’occhio, uno scandalo visivo, altrimenti ha fallito. Ma tutto questo per quasi 150 anni non è stato affatto un problema. La persuasione non è un problema.
Essa infatti si gioca sul puro divertimento, è intrigo del passante che si ferma per strada di colpo, divertito, mentre cerca di entrare nel “prodotto” scoperchiando la testa del cartellonista di turno. E un manifesto percepito così non lo dimentichi subito, ne parli spesso, ti trovi a citarlo in una conversazione magari decenni dopo. I cartellonisti non disegnano con l’occhio buttato ai numeri del mercato e non vogliono molte regole. Dentro lo spazio di un foglio vogliono lasciare il segno, e farsi ricordare. Una delle prime regole che infrangono è quella di rispettare le righe. Si, le righe, quelle che fanno mettere le scritte degli slogan tutte ordinate e le rendono una cosa a parte dal disegno. Le scritte diventano invece per loro disegno puro, un’”occasione” decorativa a condizione di poterle disegnare come si vuole. Grandi e poi immediatamente piccole, con i caratteri tipografici inventati, se serve. Si mischiano al disegno, giocano col prodotto, lo prendono in giro. Ecco, questo è un manifesto cartellonista. E se un omino coi baffi è per voi ancora oggi una caffettiera vuol dire che siete rimasti fermi, col gusto, al secolo XX. Ma non ve ne fate un problema.