Opera semiseria di Gioacchino Rossini, La gazza ladra fu rappresentata per la prima volta al Teatro alla Scala di Milano il 31 maggio 1817. L’opera ha una durata piuttosto impegnativa – parliamo di circa tre ore e mezza – ed è forse per questo raramente rappresentata a teatro; molto più famosa è la sua ouverture, consacrata nell’immaginario popolare dalla colonna sonora di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick. Degno di nota, è anche il cortometraggio del 1964 di Giulio Gianini e Lele Luzzati, parte della triologia Omaggio a Rossini che, sulle note dell’ouverture e con l’inconfondibile stile dell’artista genovese, mostra le vicende del simpatico pennuto che dà il titolo all’opera.
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La gazza ladra nasce in un contesto storico e personale che profuma di rivoluzione: siamo poco al di là della disfatta napoleonica e in Italia così come nel resto d’Europa non si fa altro che parlare di uguaglianza e di diritti dell’uomo e del cittadino. La famiglia Rossini, poi, faceva parte di quella borghesia provinciale in grado di fornire strumenti e aspirazioni al proprio rampollo che vola – infatti – da Pesaro a Parigi, guadagnando stima e seguito in tutta Europa. Naturalmente le opere di Rossini sono figlie di questa filosofia liberale, come denota anche una certa predilezione per i protagonisti scelti dai bassi ranghi della società, tra cui non fa eccezione la Ninetta de La gazza ladra, una pura e coraggiosa servetta della Francia illuminista.
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La trama
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L’intero intreccio dell’opera gioca sull’equivoco e sull’onore della protagonista, le cui vicissitudini sono tragicamente compromesse e fortunosamente risolte dalla gazza ladra del titolo. La giovane serva, al servizio della famiglia Vingradito, attende con ansia il ritorno dal fronte di Giannetto, figlio dei suoi padroni e a lei sentimentalmente legato. Contemporaneamente, però, la giovane si ritrova a gestire un’altra mancanza, quella di Fernando Villabella, l’onorevole e pluridecorato padre, scomparso tra le fila dell’esercito. Quello che Ninetta non sa, però, è che il padre – da eroe della patria – è diventato un fuggiasco, in seguito a un litigio con un generale parigino che lo costringe a darsi alla macchia. Ricongiuntasi sia col padre che col fidanzato, la giovane si ritrova a dover nascondere la presenza del genitore a tutto il villaggio e a provvedere alle sue necessità vendendo di nascosto un cucchiaio – l’ultimo bene della sua famiglia – al mercante Isacco. Il caso vuole, però, che una gazza ladra sottragga al servizio di posate della famiglia Vingradito – che Ninetta stava lucidando – proprio un cucchiaio, incastrando la servetta che è accusata di furto. Il tribunale non ci va troppo per il sottile: la sentenza per Ninetta è la morte e, nello sgomento del villaggio, la ragazza si trova presto sul patibolo. Sarà proprio la gazza – insieme all’affetto e alla coscienza dei personaggi secondari e un’amnistia inaspettata – a risolvere la situazione, restituendo al villaggio la serenità e la pace di sempre.
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Il gioco delle coincidenze – le iniziali sui due cucchiai, “FV”, stanno sia per Fabrizio Vingradito (il padrone) che per Fernando Villabella (il padre di Ninetta) – stimola la storia a illustrare l’intaccabile onestà della sua protagonista. La fanciulla, infatti, è pronta a sacrificare tutto – l’amore, la vita – pur di proteggere il padre a cui aveva dato la propria parola di riservatezza. La virtù per le eroine rossiniane non è questione di rango, anzi: così come ne La Cenerentola del 1817 e Il Barbiere di Siviglia del 1816, il compositore sceglie dei libretti che raccontano una nobiltà maliziosa e invidiosa di un popolo coraggioso e coerente, segno inequivocabile dei mutamenti di classe e del riassestamento di equilibri economici caratteristici dell’età romantica.
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