Caro diario…
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Non so perché ma oggi ho deciso di scriverti, sarà perché viaggiare rende tutti un po’ tristi, o perché tutto questo silenzio attorno a me, fa sì che per la prima volta dopo tanto tempo, riesca ad ascoltare i miei pensieri. Oggi è una giorno importante per me e per i miei compagni e se solo penso a come tutto ebbe inizio, non posso non comprendere quanto sia imprevedibile e meravigliosa la vita.
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Mia mamma voleva che studiassi, che andassi bene a scuola per cercare di scappare da quella realtà che per molti poteva sembrare un sogno, ma per me che ci vivevo, il più delle volte, era un incubo.
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Sono cresciuto nella favela di Rocinha, un cumulo di lamiere e spazzatura ammassata alla periferia di Rio, una sorta di mondo nel mondo…non avevo nulla, eppure ero felice. La musica, i colori e l’aria di festa non erano per noi, erano solo per i turisti…la mia quotidianità era il non sapere se avessimo avuto da mangiare, il non sapere se papà sarebbe tornato a casa, il non sapere.
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Dopo la scuola aiutavo mia madre ad accudire i miei cinque fratelli, poi correvo per strada a giocare con i miei amici, ma non era facile, dovevamo fare attenzione a quei signori da cui il mio papà mi diceva di stare lontano, all’epoca non sapevo chi fossero, sapevo solo che dovevo stargli alla larga e non ho mai chiesto il perché, sentivo solo che era la cosa giusta da fare. I miei amici, un nugolo di ragazzini dai capelli ricci e la pelle mulatta come la mia, che correva dietro un pallone rattoppato. Questa è stata la mia infanzia. Il tempo passava e quello che era iniziato tutto come un gioco, ora diventava una speranza…la mia unica speranza. Ero diventato bravo a calciarlo quel pallone, il migliore di tutti.
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Molti dei miei compagni non c’erano più, i grandi dicevano che erano partiti per l’Europa, ma in cuor mio sapevo che erano solo scuse per non dirci la verità. Il giorno del mio ottavo compleanno, papà mi abbracciò e disse di montare sulla sua bicicletta, non la dimenticherò mai quell’ammasso di ferraglia, faceva così tanto rumore quando camminava che riuscivamo a sentire il babbo tornare a casa da decine di metri di distanza. La notte nelle favelas è tremendamente silenziosa. Iniziò a pedalare e si diresse verso la città, papà è sempre stato un tipo di poche parole, ma quel giorno non la smetteva di parlare, di cercarmi…solo dopo ho capito il perché. Arrivammo a Gávea, il quartiere che confina con Rocinha, ad aspettarci lì c’era un signore ben vestito, brasiliano anche lui ma a giudicare dalle sue mani, pulite e ben curate, era della città. Mi accolse con un sorriso che mi mise subito a mio agio, il mio papà si inginocchiò e tenendomi per mano mi disse: “Oggi hai la possibilità di dimostrare quello che vali figlio mio…questo signore è un mio amico, andrai a stare un po’ da lui a Rio, giocherai in una vera squadra di calcio”. Avevo gli occhi pieni di lacrime, non riuscii a dire nulla.
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Quella fu l’ultima vota che vidi mio padre. Qualche anno dopo seppi che era morto, se solo fossi stato con lui…se solo gli avessi detto qualcosa quel giorno. Mi feci largo a furia di goal tra le giovanili, iniziò così la mia carriera da professionista, giocai in Europa, ma la nostalgia della mia terra era troppo forte, fu così che appena ricevetti l’offerta da un club di serie A del mio paese, non ci pensai due volte prima di firmare. Ora gioco nella Chapecoense, e ci siamo qualificati per la finale della Copa Sudamericana…I miei compagni di squadra non sono più nella pelle, io rido e scherzo con loro, ma non sono felice…mi manca il mio papà…se solo potesse vedermi, se solo sapesse grazie a lui dove sono arrivato. Ti saluto caro diario, sono stanco e l’aereo su cui sono con gli altri compagni di squadra, mi concilia il sonno. Sai forse è sciocco da dire, ma prima tra i passeggeri, per un attimo mi è parso di vedere mio padre…