Li chiamano “quelli delle favelas”: sono i migranti, un’ottantina di famiglie, che vivono in via Ettore Fieramosca, nel rione Libertà, in un comparto – come invece lo chiamano loro – dove ogni giorno si incrociano vite, etnie, costumi e culture.
Oltrepassiamo quel portone dove il 15 aprile divampò un incendio, 15 persone furono tratte in salvo tra cui anche due bimbi nigeriani. Sui muri ci sono ancora le tracce delle fiamme: qualcuno quel giorno decise di dare fuoco a materassi e mobili che i migranti solitamente raccolgono per strada, ripuliscono, aggiustano e li usano nei loro piccoli appartamenti di fortuna o li rivendono.
Si entra così in un grande cortile, chiuso da una parte da un muro alto e imponente e dall’altra dai palazzi. Ed è qui che si concentra la vita di una comunità composta da un mix di migranti, provenienti dal Senegal, dal Gambia, dal Ghana, dalla Nigeria, dall’Eritrea, dal Bangladesh, dal Pakistan. In questo androne ci sono cumuli di mobili da una parte, accatastati in ordine e ripuliti. Al centro file di panni stesi. Sui lati le piccole porte delle abitazioni prese in affitto a 300 euro al mese (in media). Ci raccontano del loro mondo. Un mondo che sembra fare invidia a chi dall’esterno punta sui migranti tutta la responsabilità del degrado del rione Libertà.
Il lavoro da “inventarsi” e quello da trovare, senza successo
Non tutti hanno un lavoro. C’è chi se lo crea. Come alcuni di questi migranti che girano per le strade del Libertà raccogliendo tutti gli ingombranti che vengono abbandonati accanto ai cassonetti dai cittadini, per poi portarli al comparto, aggiustarli, ripulirli e rivenderli. Altri lavorano come badanti, baby sitter o si occupano delle pulizie. C’è però chi non ha trovato altro che andare a chiedere l’elemosina. Di mattina non c’è quasi nessuno nel comparto, se non i più anziani, che sbrigano le pulizie e si prendono cura dei gatti del quartiere.
Il mutuo soccorso
Qui le differenze tra le etnie nei paesi di origine si annullano. Fanno tutti parte di una grande famiglia e i contrasti, ad esempio, tra musulmani o cattolici, o tra eritrei e etiopi, contrasti che causano milioni di vittime nelle terre di origine, vengono azzerati. In nome di una sola famiglia. Al comparto tutti fanno qualcosa per gli altri. Ci si aiuta a vicenda. Entriamo quasi in un sistema di welfare parallelo dove c’è Aisha che ha 60 anni e si prende cura dei bambini della sua vicina quando è fuori per lavoro. La sua vicina, per ringraziare, le lava i panni nella lavatrice di una sua amica, perché Aisha non ha una lavatrice e vive da sola perché vedova. C’è poi chi si offre di tagliare i capelli ai piccoli, chi cura i gatti del quartiere, chi pulisce l’androne per tutti, chi tiene sempre un occhio sui bimbi che giocano nel cortile interno. Chi, quando piove, ritira i panni di tutti, indistintamente se sono di migranti o di baresi (ci sono anche italiani che vivono nelle “favelas”). Insomma siamo entrati in un sistema di solidarietà e di mutuo aiuto mai conosciuto in precedenza.
I problemi del Libertà
Il Libertà è un quartiere in sofferenza. Lo raccontano i rifiuti a terra, le auto lasciate in doppia e tripla fila che certe volte impediscono il passaggio persino delle ambulanze, le risse di ubriachi (baresi e migranti senza distinzione), ma soprattutto le sparatorie. Come quella di pochi giorni fa, nella notte di Halloween quando in strada c’erano tanti bambini. “Anche se siamo a pochi metri dal centro – spiegano dal quartiere – in realtà viviamo in una periferia. Perché così viene trattato questo rione. Eppure è pieno di risorse, di potenzialità, di persone come le maestre della scuola Principessa di Piemonte che sono dei soldati per quello che fanno, per come si immolano per garantire l’integrazione”. Nel Libertà ci sono negozi aperti ogni giorno, fino a tarda sera, c’è il mercato, ci sono le chiese, l’oratorio. “Eppure – continuano dal quartiere – ci si nasconde dietro un dito, puntato contro i migranti, senza guardare oltre quel dito: a quella malavita, quella criminalità che vive ancora qui”. Il Libertà è anche quel quartiere dove uscendo dal portone delle “favelas” vediamo un uomo, bianco, con un materasso sotto il braccio che lo getta accanto al cassonetto in pieno giorno. E a chi glielo fa notare risponde: “Chi se ne importa”.
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