L’ottavo album dei Meshuggah, The Violent Sleep of Reason, è finalmente uscito, per la gioia di ogni amante del metal. Non si tratta di una semplice tappa del cammino degli svedesi, ma di un disco di splendida potenza che è stato già in grado di entusiasmare unanimemente pubblico e critica.
All’appassionato che non li conoscesse ancora, non posso che consigliare di correre ad ingozzarsi con la loro discografia. A tutti gli altri, dirò che non si tratta solo di alcuni dei migliori musicisti che questo genere musicale ha da offrire, ma pure di uno di quei pochi gruppi a potersi definire davvero originale (ancora nel 2016), al punto da far scervellare chi cerca di comprendere la loro musica. Chiaramente stiamo pur sempre parlando di progressive metal, estremo e di avanguardia, per cui la musica degli svedesi potrà risultare indigesta ai più.
Un mese fa l’album era stato anticipato dal brano Born in Dissonance, del cui finale mi innamorai subito: si tratta di una delle parti più melodiche del lavoro. Gli altri due singoli, Clockworks e Nostrum, sono stati un’assicurazione su quello che ci attendeva. I testi sono quello che i Meshuggah ci hanno offerto da sempre: una glaciale poesia di acciaio e follia, accompagnata a una musica inarrestabile e talvolta apparentemente senz’anima. L’intero disco è stato registrato live, per la prima volta in oltre vent’anni: a fronte di questo approccio più “immediato” (rispetto ai due dischi precedenti) troviamo comunque una splendida resa e una sensazione di maggiore potenza dei brani. Questo ottavo album ha finora riscosso solo plausi da parte della critica. Persino Misha Mansoor, fondatore e chitarrista dei Periphery, si è sentito di commentare positivamente loro brani su YouTube. Il sogno è quello di vedere i due gruppi suonare insieme, ma non si può davvero chiedere nulla a un 2016 che ha visto l’uscita di due loro dischi così spettacolari.
Il titolo del lavoro, The Violent Sleep of Reason (il violento sonno della ragione) si ispira alla celebre acquaforte e acquatinta di Francisco Goya, Il sonno della ragione genera mostri. Non credo si potesse trovare un titolo migliore per un album che si presenta come il perfetto specchio delle inquietudini dei nostri tempi. In Monstrocity, ad esempio, si parla di una megalopoli che vive di intolleranza, pregiudizi, credulità, totalitarismi, e cioè gli spettri che aleggiano sulla nostra società occidentale. Come ha giustamente notato Rolling Stone, quelle dei Meshuggah sono le sonorità dell’Apocalisse, e in effetti sembra che in questa ottava fatica abbiano riassunto tutti i disagi di un’epoca che avverte il sinistro presagio dello scivolare lentamente verso il disastro. E che rimane addormentata, senza reagire in maniera adeguata. Nella title track, poi, si colgono alcuni degli aspetti più veri della natura umana in ogni tempo: il tradimento, la perdita dell’innocenza, l’illusione. Il brano parla in particolare del non reagire più, neppure di fronte agli stimoli più forti, come quelli che vengono dalle immagini delle crisi umanitarie. E proprio in questi giorni, nei quali si fa sempre più popolare l’ipotesi che tutto il nostro mondo sia un’illusione, pare una fortunata coincidenza che questo brano visionario concluda così: “So when you die, remember we said it’s not reality”.