[vc_row][vc_column width=”2/3″][vc_row_inner][vc_column_inner][vc_column_text][youtube]https://www.youtube.com/watch?v=Mv7-_MyU8lQ[/youtube][/vc_column_text][/vc_column_inner][/vc_row_inner][vc_row_inner][vc_column_inner][vc_column_text]rn
In questi giorni al cinema c’è una tragicommedia molto particolare sui rapporti familiari, La Famiglia Fang, un film sul difficile processo di emancipazione dei figli dai genitori (e dei genitori dai figli) e sulla crescita – un po’ tardiva – dei protagonisti. Sullo sfondo della vicenda, alcune riflessioni sulla performance art, mezzo di espressione nato negli anni Sessanta, tipico di alcuni artisti balzati nel clamore delle cronache per la particolare natura delle opere, basate sull’azione e sulla partecipazione spontanea e inconsapevole del pubblico. Questo è quello che Caleb (Christopher Walken) e Camille (Maryann Plunkett) Fang hanno sempre fatto con i propri figli: organizzare performance in cui mettere in evidenza comportamenti e storture della società americana e vivere in una costante finzione d’arte. Stanchi del modello genitoriale, in cui la quotidianità è compromessa dalla necessità dell’artificio artistico, Annie (Nicole Kidman) e Baxter (Jason Bateman, che firma anche la regia) decidono di spezzare il legame filiale e di costruirsi delle proprie carriere, facendo i conti con l’eredità nevrotica accumulata durante l’infanzia. Che succede, però, davanti al pericolo – per la prima volta reale – della scomparsa dei due genitori? Come affrontano la perdita due figli a digiuno di un vero rapporto e di veri sentimenti?
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La dinamica del racconto si polarizza sull’equilibrio fra due coppie simmetriche, Caleb e Annie – padre e figlia – l’emisfero più esibizionista e carismatico a cui i minori, Camille e Baxter – madre e figlio – fanno da spalla. La storia si sviluppa tutta attorno a questo nucleo familiare sui generis, apparentemente unico, ma racconta le sofferenze di ogni famiglia, quando i figli crescono e i genitori invecchiano e né gli uni né gli altri riescono ad accettare il tempo che passa. Interessante constatare come un film che ha tutte le carte in regola per risultare originale si appiattisca di fronte a una regia e una sceneggiatura piuttosto normali. Gli unici motivi realmente originali sono le indagini sui profili artistici dei due genitori Fang e l’accennata analisi psicologica della figura dell’artista-padre e dell’artista-madre, tra interprete e creatore. La maternità artistica è nella scultura, nella creazione di qualcosa di nuovo a partire dalla materia – e non è un caso che, fra i due, Camille sia quella più legata alla tradizione figurativa e oggettuale dell’arte – Caleb è un artista del concetto, tiranno nell’imporre il suo significato all’esistenza dei figli. Annie e Baxter, invece, desiderano fuggire dalle mani dei loro creatori, per diventare a loro volta nuovi artefici del ciclo vitale.
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La Famiglia Fang colpisce per i dettagli, ma lascia indifferenti nell’insieme, solleticando l’interesse degli addetti ai lavori dell’arte contemporanea, che sanno che le performance dei Fang, per quanto assurde, hanno una reale coerenza nella storia dell’arte. Altra nota di merito del film, Christopher Walken che, da attore consumato, riesce a trovare la formula perfetta per ogni interpretazione, rimanendo sempre fedele a se stesso, probabilmente consapevole di aver raggiunto un tale livello di fama e di fascino da giustificare da solo la visione di un film. Al contrario, la diva Nicole Kidman affronta il personaggio di Annie con sufficienza, inespressiva per colpa del botox e della noia. Il finale, macchinoso e affrettato, insieme alla linearità di montaggio e scrittura contribuisce a rendere l’esperienza con la Famiglia Fang piuttosto scialba, ulteriore occasione mancata del cinema che sgonfia le buone idee per mancanza di coraggio e – forse – di libertà espressiva.
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