Avevamo osservato una certa lentezza nell’avanzare della trama della sesta stagione de Il Trono di Spade, ma ora possiamo affermare che si trattava solo di una rincorsa che ci avrebbe portati a questa nona puntata, epica, tesa e ricca di spunti. Confermiamo, nella prima metà dell’episodio, che il gioco del trono è gestito da mani femminili, con la centralità sempre più evidente dei personaggi di Daenerys, Sansa e Yara. La Madre dei draghi, però, ci fornisce un ulteriore elemento che rende chiaro ciò che prima era sottinteso: non si tratta solo un gioco di genere, ma di uno scontro generazionale.
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I Sette Regni – messi letteralmente a ferro e fuoco – troveranno pace solo in un rinnovamento di costumi, alleanze e di sovrani. Così, Yara, la prima del continente occidentale a stipulare un sodalizio con la Distruttrice di catene, entra a gamba tesa nel nuovo capitolo di Storia inaugurato dalla Targaryen con l’abolizione della schiavitù da Meereen. Col fuoco dei suoi draghi Daenerys ha insegnato al resto del mondo che per arrivare alla pace bisogna passare dalla violenza e che chi non si evolve è destinato a soccombere. Tyrion – che accusa Daenerys della stessa sete di sangue del padre, il Re folle – viene smentito: la furia dell’erede dal sangue di drago non è cieca, ma ben lungimirante e guarda a un mondo purificato attraverso le fiamme.
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rnL’impatto rivoluzionario del messaggio della Targaryen è straordinario e, non a caso, il suo progetto politico ha trovato sponda nella sua controparte occidentale, Yara: “Finché le donne non saranno chiamate, non soltanto alla libera partecipazione alla vita politica generale, ma anche al servizio civico permanente o generale, non si potrà parlare non solo di socialismo, ma neanche di democrazia integrale e duratura.” (Lenin)
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La battaglia dei bastardi
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Girata da Miguel Sapochnik, che aveva già dato prova di gestire magnificamente le scene di battaglia nell’ottavo episodio della quinta stagione – Hardhome, in cui Jon affronta il Re della Notte in una carneficina che vede cadere i capi delle tribù dei bruti – Battle of the Bastards non smentisce le aspettative annunciate nel titolo e riserva i momenti migliori nella seconda metà della puntata, dedicata alla resa dei conti tra Stark e Bolton.
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Dalla morte del piccolo Rickon a quella del grande Wun Weg Wun Dar Wun, dalla caduta dei vessilli dei Bolton all’entrata all’arrivano i nostri dell’esercito di Robin Arryn – avevamo già osservato quanto agli sceneggiatori piaccia questo espediente, no? – nulla di quel che succede devia dai binari narrativi impostati nelle scorse puntate. La regia, però, riesce a tenere ugualmente lo spettatore incollato allo schermo, giocando con i piani stretti, con le scene di massa e con la camera schiacciata sull’eroe della battaglia, Jon Snow, che si muove invincibile nel miasma di corpi falciati dalle schiere nemiche.
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Perché Jon e Sansa riescono a sconfiggere Ramsay Bolton? Come nella migliore delle narrazioni, Davide riesce a sconfiggere Golia: valorosi come i Trecento di Leonida, patriottici come gli scozzesi di William Wallace, i bruti e i sessantadue uomini dell’Isola dell’Orso riescono a farsi strada nella testuggine dei Bolton e a rompere le linee, resistendo eroicamente fino all’arrivo dei rinforzi. Anche qua, la chiave di lettura ce la forniscono gli autori, attraverso le parole con cui il comandante Snow provoca Ramsay – I tuoi uomini combatterebbero per te se sapessero che tu non combatteresti per loro? – sottolineando la forza del suo comando. Anche qua ci imbattiamo nel concetto di progresso: da sud come da nord, il destino del mondo si combatte – e si vince – con armi rivoluzionarie. Qualche puntata fa, l’incontro tra la bruta Gilly e il vecchio Tarly ci aveva mostrato quanto dura e impenetrabile fosse la coltre di pregiudizi che il continente civilizzato nutre nei confronti di chi proveniva da oltre la barriera: oggi vediamo i bruti sacrificarsi in nome della riconquista di Grande Inverno, mossi dalla fedeltà assoluta nei confronti dell’ ex-Lord Comandante Snow. La rivoluzione, per essere efficace, prevede l’abbattimento delle frontiere, quello che nel marxismo siamo soliti chiamare internazionalismo: ecco perché la vecchia classe dominante, sadica e disumana non può fare a meno di cadere sotto al vessillo della nuova, unita, libera e fiera della propria identità trasversale.
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Attendiamo con sempre più trepidazione il finale e lasciamo Grande Inverno in ottime mani, in attesa che il fantasma che si aggira per Westeros arrivi ad Approdo del Re a dorso di tre draghi o con il vento freddo del nord.